HUMAN SAFARI
L’Italia ama raccontarsi come patria della civiltà giuridica, laboratorio del Rinascimento e depositaria di un umanesimo che dovrebbe, almeno sulla carta, immunizzarla da ogni forma di barbarie. Ma basta scendere appena sotto la superficie di questa auto-mitologia per scoprire come, negli anni Novanta, alcuni cittadini italiani trasformarono la guerra di Bosnia in una sorta di parco tematico della violenza. Non andavano a Sarajevo per comprendere un conflitto o sostenere una popolazione assediata, ma per piazzarsi sulle colline con un fucile di precisione e sparare su civili impegnati in attività ordinarie: fare la spesa, attraversare una strada, tentare di vivere.
Il meccanismo psicologico è noto: la distanza etica si riduce, l’alterità si acuisce, il bersaglio non è più una persona ma un oggetto in movimento. È la logica del deumanizzare che ritorna ciclicamente nella storia, indipendentemente da latitudine, lingua o bandiera. Quei “cecchini del weekend” provenivano dal Triveneto, da Magenta, da Trieste. Luoghi ordinari, contesti apparentemente immuni alla radicalità della violenza. Pagavano cifre esorbitanti—cento milioni di lire a testa—per vivere un’esperienza che trasformava l’omicidio in consumo, in adrenalina, in narrazione privata da condividere solo fra “iniziati”. Una forma primitiva e brutale di turismo bellico, resa possibile da reti di complicità, silenzi istituzionali e un’opinione pubblica che, all’epoca, preferiva ignorare.
Tutto questo era noto ai servizi segreti italiani già nel 1993. C’erano dossier, nomi, cognomi, elementi precisi. Ma la ragion di Stato, l’imbarazzo diplomatico, la paura di incrinare un’immagine nazionale ripulita e rassicurante prevalsero sul bisogno di giustizia. Il risultato fu un archivio pieno e una coscienza pubblica vuota.
Ed è qui che il caso italiano dialoga, in modo inquietante, con episodi avvenuti in contesti completamente diversi, come quelli documentati durante alcuni bombardamenti su Gaza. Gruppetti di cittadini israeliani che si radunavano su colline e terrazze per assistere alle esplosioni come a uno spettacolo serale. Non partecipavano alla violenza direttamente, non impugnavano armi, eppure fotografavano, filmavano, brindavano con spumante allo spettacolo della distruzione. Non sparavano proiettili, ma scattavano fotografie, non colpivano persone, ma applaudivano quando la colonna di fumo saliva. Era una violenza trasformata in intrattenimento, in eccitazione estetizzata, in evento da condividere su un telefono.
In entrambi i casi—i cecchini italiani e gli spettatori israeliani—si manifesta un tratto ricorrente delle società contemporanee: la spettacolarizzazione dell’orrore, la trasformazione della sofferenza altrui in oggetto di consumo. La vittima diventa scenario, la guerra diventa performance, il dolore diventa sfondo per la propria identità. Non è un tratto “nazionale”; è una tendenza umana amplificata da contesti politici, culturali e mediatici che permettono, incoraggiano o quantomeno tollerano tale distorsione.
Nel 2025 la Procura di Milano riapre il cassetto e decide di indagare. È un gesto dovuto, ma arriva dopo trent’anni di silenzio. E il silenzio, in questo come in altri casi, è il vero spazio in cui si forma la complicità. Abbiamo preferito non sapere: perché sapere avrebbe imposto una responsabilità, un confronto con l’idea che i “mostri” non sono entità esterne, ma individui cresciuti nelle nostre stesse strade, nelle nostre stesse culture politiche, nei nostri stessi vuoti etico-istituzionali.
La Bosnia ricorda. Gaza ricorda. Le famiglie ricordano senza intermittenze. Le società occidentali, invece, attivano la memoria a scatti, come un riflesso condizionato più estetico che etico. Ci indigniamo quando la storia ci rimbalza addosso, non quando si sta producendo. Ci scopriamo moralisti a intervalli irregolari, sempre fuori tempo massimo.
Il punto non è equiparare contesti diversi, ma riconoscere un paradigma comune. Quando la vita umana perde il suo statuto di riferimento etico e diventa funzione di un desiderio, di un’identità, di un’emozione privata, allora la violenza smette di essere eccezione e diventa possibilità. E dove c’è possibilità, c’è sempre qualcuno disposto a coglierla.
Questa è la lezione, amara e reiterata: la crudeltà non nasce ai margini della società, ma nei suoi interstizi; cresce nei silenzi, prolifera quando istituzioni e opinioni pubbliche preferiscono distogliere lo sguardo. Ed è in quello sguardo distolto che si vede, più chiaramente che altrove, il nostro fallimento collettivo.
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