IL BENE DEL MALE

C’è un punto in cui la teologia smette di essere rassicurante e inizia a vacillare. È il punto in cui si incontra Giuda Iscariota, figura odiata da secoli ma stranamente indispensabile alla storia della salvezza. Senza il suo gesto non ci sarebbero né arresto né processo né crocifissione. L’intero edificio cristiano poggia su una scelta che tutti fingiamo di considerare marginale e che invece è l’ingranaggio centrale del racconto.

Quando fu ritrovato il Vangelo di Giuda si scoprì una versione alternativa che trasformava il traditore nel discepolo più lucido. Non il nemico ma colui che comprende il compito drammatico di liberare lo spirito di Cristo dalla prigione della carne. La Chiesa respinse senza esitazioni questa lettura, tuttavia nelle sue stesse liturgie conserva un indizio che disturba ogni certezza. La formula o felix culpa applicata alla caduta di Adamo suggerisce che il male possa diventare condizione del bene, e questo apre inevitabilmente la domanda se anche il tradimento di Giuda non sia un male necessario.

I grandi teologi hanno provato a risolvere il paradosso. Agostino difende la libertà di Giuda ma riconosce che Dio aveva previsto il tradimento e lo aveva inserito nel suo piano. Tommaso afferma che l’intenzione di Giuda fu malvagia ma che Dio seppe trasformare quel male in strumento di salvezza. Entrambi tentano di tenere insieme libertà umana e necessità divina, ma il caso di Giuda rende evidente la fragilità di questo equilibrio. Se la redenzione dipende da una scelta, quella scelta non è più libera. E se non è libera, la colpa diventa difficile da sostenere.

Alcune correnti eretiche spinsero questa intuizione fino alle estreme conseguenze. Immaginarono Giuda come figura sacrificale, quasi un martire rovesciato che accetta l’infamia per permettere il compimento della salvezza. È un’idea scandalosa per ogni ortodossia, ma tocca una verità scomoda. Senza un traditore, Cristo rimarrebbe un maestro spirituale e non il redentore che attraversa la morte per sconfiggerla.

Perfino i Vangeli canonici conservano un’inquietudine che non si lascia domare. Giuda si pente, restituisce il denaro e si toglie la vita. Non sembra il comportamento di un uomo mosso da semplice avidità. È come se avesse intuito l’enormità di ciò che aveva messo in movimento. E nel Vangelo di Giovanni c’è quella frase di Gesù che sembra un via libera. Quello che devi fare fallo presto. Una frase che fa pensare più a un copione già scritto che a un evento imprevisto.

La teologia si è sforzata di sostenere che Dio conosce tutto e che l’uomo resta libero, ma la storia di Giuda è il punto in cui queste due affermazioni smettono di convivere pacificamente. Se il tradimento era necessario al piano divino allora Giuda non poteva evitarlo, e se non poteva evitarlo la sua colpa diventa quantomeno ambigua.

Alcuni mistici arrivarono a pensare che Giuda potesse essere salvato insieme a tutti gli altri. L’idea fu condannata, ma rimane seducente perché se la misericordia non raggiunge il più maledetto degli uomini allora non è davvero infinita. E forse il vero scandalo del cristianesimo non sta nella croce o nella risurrezione, ma nel fatto che l’intera redenzione si regge su un gesto compiuto da qualcuno che nessuno voleva essere e che tutti continuano a condannare.

La domanda resta aperta. Giuda non è solo il traditore della storia ma anche l’ombra che costringe la fede a interrogarsi sul proprio fondamento. Se la salvezza ha avuto bisogno della sua caduta, allora il confine tra colpa e necessità diventa molto più sottile di quanto siamo abituati a pensare.

Resta infine la conclusione più disturbante. Se il male è necessario per far risplendere il bene, allora il male diventa parte del bene, una componente interna e non un nemico esterno. Ed è difficile immaginare provocazione più radicale per qualsiasi teologia che voglia separare nettamente ciò che salva da ciò che perde.

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