IL GIRASOLE DI VIA DEZZA
C’è un campetto da basket in via Dezza, a Milano, dietro la rete del canestro nord, dove da otto anni ogni mattina spunta un girasole fresco. Non è un fiore qualunque: è il modo in cui una madre dice «buongiorno» al figlio che non c’è più. Alessandro aveva quindici anni quando, nel 2017, un malore improvviso lo ha fatto cadere proprio lì, mentre faceva quello che amava di più. Non si è più rialzato. Da allora quel girasole è l’unico appuntamento fisso che quella donna ha ancora con lui.
Qualcuno, da mesi, lo strappa con regolarità. Un gesto piccolo, vigliacco, anonimo. Poi è arrivato il biglietto della madre, scritto con la calligrafia incerta di chi ha le mani che tremano da anni «Non strapparmi. Non mi sono più rialzato dopo essere caduto su questo campo. Questo girasole mi ricorda. Grazie, Alessandro».
La risposta, vergata con il pennarello nero sullo stesso foglio strappato e riappeso, è stata «Se tutti mettono un fiore per ogni morto, Milano sarebbe una pattumiera».
Ecco, fermiamoci un secondo.
Leggiamola di nuovo, quella frase, perché è un documento storico dell’Italia del 2025.
Non è solo cattiveria gratuita, è la fotografia perfetta di una società che ha smarrito il senso stesso della misura umana. Non stiamo parlando di un dibattito su decoro urbano, di regole condominiali o di estetica cittadina. Stiamo parlando di una madre che cerca di sopravvivere alla morte di un figlio adolescente appendendo un fiore del costo di un euro e mezzo. E c’è chi, di fronte a questo, sente l’urgenza di farle sapere che il suo dolore è spazzatura.
Non serve essere psicologi per capire che chi scrive una frase del genere non sta difendendo la pulizia della città, sta difendendo il proprio diritto a non essere disturbato dal dolore altrui. È la stessa logica per cui si cambiano marciapiede davanti a un senzatetto, si abbassa il finestrino quando un migrante lava i vetri, si scrolla via qualsiasi immagine che ricordi che la vita, a volte, è insopportabile. Il girasole di via Dezza è diventato un problema perché costringe chi passa a ricordare che i figli possono morire giocando a pallone. E ricordare fa male. Molto più comodo strappare.
Milano è una città che si vanta di essere europea, efficiente, accogliente. Ma sotto la patina di design e aperitivi c’è ancora troppa gente che misura l’umanità con il metro della comodità personale. «Pattumiera» è la parola che usa chi vede il dolore come rifiuto da smaltire in fretta, prima che puzzi.
Io non conosco quella madre. Non so nemmeno come si chiama. Ma so una cosa con certezza, quel girasole non è un atto di inquinamento visivo. È un atto di resistenza. È l’ultima forma di maternità che le è rimasta: portare ogni giorno il sole al proprio figlio. Strapparlo significa dirle che anche quel poco le viene negato.
Allora facciamo una cosa semplice, milanesi e non.
Nei prossimi giorni andate in via Dezza e legate un girasole alla rete. Non serve scrivere niente, non serve fare storie su Instagram. Basta un fiore. Dieci fiori. Cento fiori. Facciamo in modo che quella rete diventi una distesa gialla così grande che nessuno avrà più il coraggio di toccarla. Facciamo in modo che quando quella madre arriverà domani mattina troverà non un girasole solo, ma un campo intero.
E a chi ha scritto quel messaggio dico solo questo,
hai ragione, Milano a volte sembra una pattumiera.
Ma l’unico rifiuto in questa storia sei tu.
Per Alessandro.
E per tutte le madri che continuano a portare fiori dove i figli non possono più riceverli.
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