IPOCRISIE DI STATO
Lo Stato ama proclamarsi custode della vita, baluardo etico contro ogni deriva barbarica, ma questa sua solenne missione sembra assumere una sorprendente elasticità a seconda delle circostanze. Ci sono momenti in cui la vita diventa un oggetto maneggiabile, sacrificabile, quasi un ingombro da spostare per far funzionare meglio i meccanismi del potere. Quando invia armi oltre confine, quando approva missioni militari “necessarie”, quando bombarda popolazioni civili con una facilità che non dovrebbe appartenere a nessuno, allora la vita non è più sacra, ma semplicemente una voce di bilancio, un costo prevedibile, un rumore di fondo. In quei casi lo Stato non si tormenta, non si interroga, procede sicuro di sé, forte del conforto di una legge, di un voto parlamentare, di una formula amministrativa così seducente da trasformare la morte in un evento burocratico, quasi contabile. La tragedia si dissolve nel linguaggio neutro dei comunicati ufficiali e tutto sembra magicamente legittimo.
Eppure, quando il discorso si sposta dal campo di battaglia a un letto di ospedale, avviene un miracolo curioso...la vita diventa improvvisamente inviolabile. L’autorità che prima era disposta a tollerare esplosioni, macerie e “danni collaterali” riscopre d’un tratto un attaccamento quasi religioso all'esistenza, come se ogni soffio fosse un dogma, purché sia quello giusto, nel contesto giusto, con la sofferenza giusta. Una persona lucida, consapevole, che soffre ogni giorno in modo indicibile, che dipende da una macchina anche per il gesto più semplice e che non riconosce più il proprio corpo come un luogo vivibile, viene considerata incapace di decidere della propria fine, ma perfettamente idonea a sopportare un dolore che nessun legislatore accetterebbe mai per sé. Il paradosso si fa quasi comico, se non fosse tragico, lo Stato ritiene che quella persona non sia in condizione di decidere di morire, ma al tempo stesso pretende che sia pienamente in condizione di continuare a vivere per un tempo indefinito. Una sorta di paternalismo rovesciato, in cui il genitore non protegge il figlio dalla sofferenza, ma lo costringe a sopportarla in nome di un principio astratto e sempre più fragile.
Si parla spesso di dignità, ma la dignità evocata dal potere è curiosamente a senso unico: esiste solo nella direzione che non disturba l’apparato, che non incrina la narrazione politica. La dignità di chi soffre non sembra appartenere allo stesso vocabolario della dignità statale. E allora viene spontaneo chiedersi a cosa serva uno Stato che difende la vita solo quando fa comodo, che la trasforma in un feticcio morale quando un individuo chiede libertà, e in un fastidio secondario quando la geopolitica reclama sacrifici. La verità è che ciò che viene protetto non è la vita, ma il monopolio sulla decisione della vita. Lo Stato non teme la morte, teme che la morte possa essere scelta senza di lui, fuori dal suo controllo, senza passare per i suoi codici, i suoi decreti, le sue liturgie legislative. È un timore antico, quello del potere che perde il controllo sul corpo del cittadino, perché il corpo — soprattutto quando soffre — è l’ultimo spazio in cui la libertà può ancora diventare realmente sovversiva.
E qui arriva l’ultimo paradosso, forse il più grottesco, per alcuni, l’unica forma “accettabile” di fine vita sarebbe il suicidio compiuto da soli, in completa autonomia, magari in condizioni fisiche in cui persino sollevare un bicchiere d’acqua è un’impresa. Come se la libertà fosse valida solo quando non costa nulla allo Stato, come se la vita potesse essere autodeterminata solo quando non richiede aiuto, come se la sofferenza estrema dovesse diventare una sorta di rito di purificazione che l’individuo deve sbrigare da sé, senza disturbare nessuno. La morte va bene, pare, purché sia discreta, solitaria, non assistita: una soluzione “igienica”, che non disturba le coscienze né obbliga il potere a riconoscere la propria ipocrisia. E così, per la più crudele ironia, lo Stato arriva a tollerare l’atto estremo dell’autodistruzione solo a patto che avvenga nell’abbandono più assoluto. Una conclusione che dice tutto, non è la vita ad essere sacra, è il controllo sulla vita a essere intoccabile.
Condivido pienamente
RispondiElimina🌹 🙏
Elimina