LA BILANCIA DI DIO


C’è una storia antica, quasi una favola senza morale dichiarata, che parla di un contadino, un panettiere e una bilancia un po’ storta ma molto sincera. Ogni settimana il contadino vende mezzo chilo di burro al fornaio. Tutto fila liscio finché un giorno il fornaio, punto da un sospetto, decide di pesare la sua porzione. Scopre così che il panetto è più magro del dovuto e si indigna. Si sente truffato, defraudato, privato della sua giustizia settimanale. Tanto basta perché decida di portare il contadino in tribunale, convinto che la legge rimetterà ordine nello squilibrio dei piatti.

Quando il giudice chiede al contadino in che modo pesasse il burro, l’uomo risponde con una calma che sembra uno schiaffo zen. «Non ho strumenti di misurazione precisi, solo una bilancia». E quando il giudice insiste, lui aggiunge la frase che rovescia il processo come una frittata ben fatta «Uso la pagnotta di pane da mezzo chilo che compro dal fornaio. Metto il pane su un piatto e dò lo stesso peso di burro sull’altro. Se il burro è leggero… be’, è perché lo è diventato anche il pane». A quel punto la causa si chiude da sola... la bilancia aveva già testimoniato molto prima che il tribunale fosse convocato.

E allora, senza fretta, ci chiediamo perché una storia così semplice ci colpisca tanto. Forse perché è una di quelle verità che non bussano, spalancano la porta, entrano e ci puntano un dito sul petto. Ci ricordano che la misura con cui misuriamo gli altri è, inesorabilmente, la misura con cui saremo misurati noi. E questa simmetria ci inquieta, ci punge nell’orgoglio come un moscerino filosofico. Ci mostra che l’accusa più precisa, più tagliente, è spesso quella che nasce dalle nostre stesse mani.

Il fornaio voleva giustizia, ma la giustizia lo guardava già dal forno, giorno dopo giorno. Il suo pane, un po’ più leggero, era diventato la prova del suo stesso gesto, una piccola avarizia quotidiana che si era asciugata fino nel midollo, togliendo prima sostanza al pane, poi forse al cuore. Il contadino, da parte sua, non aveva imbrogliato nessuno, aveva semplicemente preso quel pane come unità di misura, come moneta di scambio, come regola del gioco. Se la regola era difettosa, non era colpa sua, era la regola stessa a generare la sentenza.

In fondo non c’è bisogno di tribunali, né di codici, né di arringhe drammatiche. Basta una bilancia a due piatti, quella che tutti portiamo simbolicamente sotto il braccio quando viviamo, lavoriamo, amiamo. Una bilancia che restituisce quello che le abbiamo dato, né più né meno. Il contadino, nella sua povertà, è quasi un maestro di sociologia involontario. Ha capito che l’equilibrio non si impone per decreto, ma si genera come un ritmo naturale, un baratto di gesti, parole e intenzioni che il mondo restituisce come un’eco fedele. È la piccola politica quotidiana dell’equità, la diplomazia degli scambi umani, la microeconomia dell’anima.

E mentre ascoltiamo, ci sentiamo nudi. Perché anche noi, ogni giorno, consegniamo agli altri una nostra pagnotta... tempo, ascolto, fiducia, cura, oppure indifferenza, impazienza, parole tirate via come croste secche. E ciò che ritorna – burro, affetto, stima, oppure delusione – pesa esattamente quanto ciò che abbiamo dato. È un principio più antico del diritto, più concreto della morale, più fastidioso delle buone maniere, non possiamo lamentarci del peso che riceviamo se abbiamo alleggerito quello che offrivamo.

Forse è questo che ci ferisce con dolcezza, la storia ci ricorda che la giustizia più vera non è un tribunale che punisce, ma un cerchio che si chiude. E che quando il burro pesa meno del pane, non è l’universo a punirci, siamo noi che abbiamo già scritto la sentenza senza saperlo. È la versione più sobria – e più crudele – della responsabilità personale.

E allora ci torna in mente quella frase del Padre Nostro che ripetiamo quasi automatici, come una formula imparata a memoria: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Non è un atto di fede, è una bilancia. Non chiediamo un perdono illimitato, chiediamo un perdono calibrato sul nostro, con la stessa generosità o la stessa meschinità. È una richiesta audace, quasi temeraria, chiediamo a Dio di trattarci esattamente come trattiamo gli altri. Peggio, glielo autorizziamo.

La bilancia del contadino e quella del cielo, a ben vedere, funzionano allo stesso modo. Restituiscono il peso che abbiamo dato. Ed è lì, in quella restituzione perfetta, che si rivela una giustizia che non mente. Ogni volta che recitiamo quella frase, accettiamo il patto. Come perdoniamo, così saremo perdonati, come misuriamo, così saremo misurati. Non c’è appello, non c’è trucco, non c’è pollice che tenga.

La verità della bilancia è semplice, brutale e consolante allo stesso tempo. Il mondo non è ingiusto per capriccio. Siamo noi che, con le nostre mani, ne regoliamo il peso. E poi ne ascoltiamo l’eco, perfetta, inevitabile, giusta.

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