L'ANAGRAMMA CHE NESSUNO CAPÌ

Roma, 29 marzo 1978. 

Nella cella improvvisata di via Montalcini 8, primo piano, Aldo Moro ha davanti un foglio, una biro e cinquantacinque giorni di vita che ancora non sa di avere. Le mani non tremano, tremano solo se le guardi da vicino, ma lui le tiene ferme, come quando firmava decreti o stringeva mani di avversari. I brigatisti gli hanno detto: «Scrivi a Cossiga. Digli che lo Stato deve trattare». Lui annuisce, prende il foglio, ma nella testa ha già un altro destinatario: se stesso, quarantott’ore più tardi, quando la lettera sarà nelle mani giuste o sbagliate.

Comincia a scrivere.  
«Caro Francesco…»  
Poi si ferma.  
Sa che la lettera uscirà, sa che la pubblicheranno, sa che i carcerieri la leggeranno prima di lui. Deve dire la verità senza dirla, deve gridare senza urlare. Ricorda i cruciverba della domenica, le griglie di Toti, le settimane enigmistiche che portava in treno da Bari a Roma. Ricorda che Cossiga, da ragazzo, vinceva i concorsi di rebus. Ricorda il Sios Marina [Servizio Informazioni Operative e Situazione della Marina militare], quei ragazzi coi capelli corti e le macchine da scrivere che decifravano i dispacci di Ustica. Se c’è una persona al mondo che può capire, è lui. Se c’è un posto dove possono capire, è lì.

Scrive:  
"…che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato".  

Conta le lettere.  
Quarantasei.  
Esattamente le stesse di "E IO SO CHE MI TROVO DENTRO IL P.O UNO DI MONTALCINI N.O OTTO".
  
Le sposta nella mente come tessere del domino, una per una, senza fretta. Gli avanza una d e una t. Le lascia lì, come firma: detenuto. O come sfida: decifratemi, se ci riuscite.

Riprende la penna.  
Pensa: «Se verrà pubblicata, qualcuno capirà».  
Non è una minaccia, è una preghiera.  
Sa che i brigatisti leggeranno, rideranno, diranno «il vecchio vaneggia». Sa che i giornali pubblicheranno, che i politici fingeranno di crederci, che Cossiga la porterà in giro come un trofeo di fermezza. Ma sa anche che da qualche parte, in un ufficio senza finestre del Viminale, un tenente di vascello del SIOS MARINA con le cuffie e una matita gialla alzerà la testa e dirà "Aspettate un attimo".

Finisce la lettera.  
La piega.  
La consegna.  
I brigatisti la fotografano, la sigillano, la spediscono.  
Lui si sdraia sul materasso, chiude gli occhi.  
Pensa: ho fatto tutto quello che potevo con quarantaquattro lettere e un po’ di coraggio.

Due giorni dopo, la lettera è sul tavolo di Cossiga.  
Cossiga la legge.  
La rilegge.  
Chiama il capo di gabinetto.  
«Pubblichiamola».  
Nessuno va al SIOS Marina.  
Nessuno conta le lettere.  
Nessuno alza la testa.

Quarant’anni dopo, in un appartamento di periferia, Carlo Gaudio apre un file Word.  
Copia la frase.  
Preme «Anagramma».  
Il computer sputa fuori:  
E IO SO CHE MI TROVO DENTRO IL P.O UNO DI MONTALCINI N.O OTTO. 

Gaudio fissa lo schermo.  
Non ride.  
Non piange.  
Prende il telefono, chiama un amico giornalista.  
«Vieni. Devi vedere una cosa».  

Il giornalista arriva.  
Guarda.  
Conta.  
Racconta.  

E per la prima volta, dopo quarant’anni, qualcuno alza la testa.

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