IL TEMPISMO DEL MONITO
Partiamo dal punto che ormai dovrebbe essere scolpito nel granito, Francesca Albanese ha condannato. Lo ha fatto subito, lo ha fatto chiaramente, lo ha fatto più volte. Eppure, come in un riflesso pavloviano, è scattato il “sì, ma…”, che in Italia funziona come una gomma da cancellare, prende la condanna, la sfuma, la riduce, la rende irrilevante. Così si può ricominciare da capo, come se non fosse mai stata detta. È un trucco antico, ma sempre efficace.
Il nodo ruota intorno a quella parola, “monito”, diventata improvvisamente un’arma contundente. Ma il punto non è tanto cosa intendesse Albanese — una diagnosi sociale, non un’assoluzione morale — bensì quando un monito si può fare. Perché qui si apre la questione vera. Quando è legittimo avvertire dei rischi? Quando il fatto è ancora caldo, pulsante, nel pieno delle cronache? O quando è passato abbastanza tempo da non urtare nessuno, col risultato però che nessuno ti ascolterà più? È la vecchia trappola dei discorsi pubblici. Se parli troppo presto, sei accusato di sfruttare il momento, se parli troppo tardi, sei accusato di aver taciuto quando serviva. È un gioco in cui si perde comunque, e chi fa il “monito” lo sa bene.
Ora, certo, dire “condanno” e un attimo dopo “che sia un monito però voi giornalisti…” suona male,, malissimo, non c’è bisogno di un consulente di comunicazione per capirlo. L’effetto è quello di mettere il dito su una ferita ancora aperta. Ma c’è anche da dire che un monito dato quando la ferita è chiusa e il cerotto è stato buttato non serve a niente, lo si dà nel momento in cui il rischio è evidente, non quando è stato archiviato. È come avvisare del ghiaccio sul marciapiede in primavera, utile ma irrilevante. E Albanese, che ha il compito di individuare le condizioni che precedono la violenza, ha fatto ciò che fanno tutti gli analisti seri, ha parlato quando il fenomeno era visibile, non quando sarebbe diventato un caso di studio.
Questo, ovviamente, non la esenta dall’errore di forma. Avrebbe dovuto separare la condanna dalla critica, mettere qualche secondo di distanza, evitare la sovrapposizione. Non perché il contenuto fosse sbagliato, ma perché il tempismo, in politica, è un’arma a doppio taglio. Però la domanda resta: quando si può parlare se non quando le cose accadono? E soprattutto, se non parli nel momento in cui un fatto mostra chiaramente una tensione che covava da mesi, quando mai lo dirai? Quando non interessa più a nessuno?
Il resto, poi, è la solita storia del doppio standard. Per quattro sedie volate, la nazione si paralizza nel dramma istituzionale, per manganelli veri, caschi veri, ferite vere, si alza la parete dell’“ordine pubblico”. Nessun editoriale indignato, nessuna solidarietà sperticata. Semplicemente si passa oltre. La violenza dei singoli è barbarie, quella delle istituzioni è regolamento interno. Una distinzione comoda, certo, ma insostenibile.
E qui il monito di Albanese — proprio quello incriminato — non solo è legittimo, ma necessario. Se l’informazione continua a rappresentare Gaza con la grammatica sbilenca che conosciamo, se continua a dare peso politico solo a certe vite e non ad altre, allora sì, si produce una distorsione che alla lunga alimenta rabbia, frustrazione e incomprensione. Parlare di questo mentre succede qualcosa di spiacevole è rischioso, sì. Ma parlarne quando non succede niente è inutile.
E quindi eccoci qui, Albanese ha sbagliato la forma, ha sbagliato il ritmo, ma non ha sbagliato la sostanza. Il suo monito arriva nel momento in cui la questione è viva — troppo viva, forse — e dunque genera irritazione. Ma un monito dato a cronache fredde è un esercizio accademico, un monito dato quando il problema esplode è l’unico che ha una minima possibilità di incidere. Poi che l’Italia preferisca sparare sul pianista invece di ascoltare la musica, questo è un altro discorso. Ma la realtà è semplice, i moniti, se devono servire a qualcosa, si fanno quando bruciano. Non quando sono già cenere.
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