NIETZSCHE CHE DICE?

L’idea nietzscheana di una morale nata dalla grande frattura tra i forti innocenti e i deboli risentiti è una delle più affascinanti messinscene intellettuali della modernità. Un racconto che funziona come un mito delle origini, con il suo paradiso della forza spontanea, la sua caduta nel moralismo cristiano e la sua promessa di redenzione attraverso una nuova solarità dello spirito. Il problema è che questo racconto, per quanto elegante, poggia su un’ipotesi che la storia non conferma. Non è mai esistito un tempo in cui la forza non avesse bisogno di giustificarsi.

Neppure Sparta, Roma arcaica o le tribù germaniche – tutte molto amate come modelli di vigore primordiale – hanno mai esercitato un potere privo di narrazione. Anche i più feroci tra gli antichi sentivano la necessità di vestirsi con miti, genealogie sacre, destini cosmici che rendessero la violenza qualcosa di più della semplice capacità di prevalere. In questo senso, l’opposizione nietzscheana tra un’età pre-morale e un’età moralistica è meno un’analisi storica che un artificio letterario, un dispositivo drammatico per mettere in scena la nascita del risentimento. Lo stesso vale per la lettura del cristianesimo come astuto complotto dei deboli è una provocazione brillante, capace di illuminare una dimensione autentica della morale cristiana, ma incapace di spiegare la forza storica del cristianesimo stesso, che non conquistò l’Impero perché qualcuno elaborò un piano geniale, ma perché offrì risposte che il paganesimo non riusciva più a dare, risposte di dignità, comunità, significato e solidarietà in un mondo in crisi. Ridurre tutto al risentimento significa non vedere la ricchezza sociale e simbolica di un movimento che parlava a milioni di persone che si sentivano invisibili o superflue. Se guardiamo al presente, poi, non troviamo affatto una società dominata dall’umiltà dei deboli, ma un’immensa macchina della moralità performativa. Aziende che appendono arcobaleni ai loghi mentre sfruttano lavoratori invisibili, politici che declamano empatia mentre amministrano strutture di potere immutate, istituzioni che trasformano il senso di colpa in strategia comunicativa. Non siamo nella vittoria della morale degli schiavi, siamo nel trionfo dell’empatia di facciata. Il senso di colpa non frena il potere, lo giustifica. Non lo limita, lo organizza. In questo scenario, chi invoca oggi una risata liberatoria che annunci un nuovo inizio rischia di ignorare un dato storico fondamentale. Ogni progetto politico che ha provato a liberare l’umanità dal presunto veleno giudaico-cristiano ha generato mostri ben più crudeli delle morali che voleva superare. Il Novecento è pieno di sistemi che, nel tentativo di liberarsi della compassione, hanno costruito gerarchie ottuse e apparati di morte, trasformando la critica nietzscheana in una caricatura brutale. Nietzsche resta prezioso come diagnosta, perché ha visto con lucidità che la morale è un campo di battaglia, che il risentimento è una forza storica, che la compassione può diventare ricatto o ipocrisia, ma la sua terapia è volutamente vaga, più evocazione estetica che programma politico. La questione che ci riguarda, però, non è come tornare a una forza originaria che non è mai esistita, né come liberarci del senso di colpa con uno scatto di volontà olimpica. La vera sfida è molto più sobria e molto più grande, capire come costruire forme di vita in cui la responsabilità non degeneri in vittimismo, in cui la forza non diventi dominio, in cui la comunità non si trasformi in gregge. È una domanda difficile, che non si risolve con genealogie eroiche né con nostalgie aristocratiche, ma con un lavoro lento di immaginazione politica e di invenzione etica. Nietzsche ci insegna a vedere il problema, non a risolverlo. Il nuovo inizio che molti annunciano a gran voce non nascerà da una risata prometeica, ma da un modo diverso di pensare la convivenza umana, qualcosa che non ha bisogno di padroni né di vittime, e che forse un giorno potremo davvero chiamare, senza enfasi, un inizio.

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