RETORICA SBOTTONATA
Salvini arriva sul palco in Puglia con la camicia sbottonata quel tanto che basta per dire “sono uno di voi”, ma senza rischiare davvero il sudore del popolo. E naturalmente parte il mantra: «Gli stranieri che non rispettano le nostre leggi devono essere mandati via». Applausi automatici, quasi condizionati. E, in superficie, chi potrebbe obiettare? Chi mai farebbe la fiaccolata per difendere un delinquente? Il problema non è il principio, è il trucco da prestigiatore: quel “gli stranieri” che mescola nell’impasto lo scippatore albanese, il pusher nigeriano, il chirurgo tunisino che fa turni da ostaggio e perfino la badante moldava che mette ordine nella vita e nella casa di tua nonna. Tutti incollati insieme, tutti sospetti, tutti potenzialmente espellibili. Una semplificazione così comoda da diventare quasi poetica.
E sì, la frase funziona. Funziona perché pizzica corde vere: il quartiere che cambia, la paura per la sicurezza dei figli, la guerra quotidiana contro il portafoglio che piange, la sensazione che “gli altri” ricevano più attenzioni di te. Paure reali, che meritano risposte serie, non slogan montati come i tavolini dell’IKEA. E qui viene il punto: la soluzione proposta risolve qualcosa o serve solo ad alimentare il motore a scoppio del consenso?
Parliamo di numeri, che non si emozionano e non partecipano ai comizi. Quattromila espulsioni l’anno: la maggior parte per questioni burocratiche, non per rapine hollywoodiane. Costo medio: tra i tremila e i cinquemila euro a testa—volo charter compreso, che è l’unica business class che nessuno desidera. Moltiplica per le diecimila espulsioni che nei comizi vengono sbandierate come se fossero caramelle, e scopri dove volano davvero i soldi: non in scuole, ospedali o sicurezza, ma in procedure che spesso si sgonfiano perché i paesi d’origine non collaborano. Tunisia, Marocco, Egitto, rispondono più o meno come faresti tu se ti chiedessero di riprenderti un parente molesto. E quando l’espulso torna con un altro nome e un altro barcone, si capisce che la disperazione, a differenza delle carte d’identità, non scade mai.
Poi c’è la magia dell’automatismo: reato uguale espulsione. Suona forte, deciso, virile quasi. Ma applicarlo davvero significa che una rissa da bar, una svista sui documenti o un furto da fame diventano biglietti per il rimpatrio. Il permesso di soggiorno si trasforma in una bomba a orologeria burocratica, e chi vive già nella paura di sbagliare una virgola si chiude, non denuncia, non collabora. Così nasce un sottobosco di invisibili, dove il crimine prolifera proprio perché chi lo subisce teme più il tribunale dell’aggressore. Perfetto, no? La ricetta ideale per aumentare sicurezza—quella di chi delinque, non la tua.
E qui arriva la parte che nei comizi non fa mai in tempo a salire sul palco: la stragrande maggioranza dei reati gravi in Italia la commettono italiani, con cognome, codice fiscale e spesso pure col tricolore appeso in salotto. Certo, esistono criminali stranieri. Puniamoli, senza sconti. Ma vendere l’immigrazione come una sfilata di delinquenti è una menzogna comoda, una di quelle che si ripetono perché funzionano meglio della realtà. Intanto i problemi veri—integrazione, controlli fatti male, regolarizzazioni pasticciate, lavoro nero che conviene a troppi—rimangono lì, parcheggiati come le promesse elettorali dopo l’elezione.
La domanda non è se hai paura: la paura ce l’abbiamo tutti, è gratis e non chiede il reddito di cittadinanza. La domanda è: chi ti sta dando una soluzione che funzioni davvero? Perché agitare lo spauracchio del nero-musulmano-fondamentalista—tre categorie che nei comizi si fondono come gelato al sole—non ti rende più sicura la figlia, non ti abbassa le tasse, non ti rinnova il contratto di lavoro. Serve solo a farti guardare storto il vicino con la pelle scura, mentre chi dovrebbe risolvere i problemi veri si gode lo spettacolo.
E alla fine resta l’interrogativo, appeso come una scoreggia in ascensore: «Come pensate di farlo, signori? Con quali soldi, quali tribunali, quali accordi con paesi che ci considerano un fastidio?». Silenzio. Poi un’altra camicia sbottonata, un altro slogan, un’altra puntata del grande show dell’illusione politica. E noi, tu, io, tua nonna e la badante moldava, restiamo qui a pagare. Non solo le tasse: anche il biglietto d’ingresso di un teatro politico che preferisce vendere paura piuttosto che costruire soluzioni.
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