TOILETTE, ULTIMA FRONTIERA
L'identità di genere è una dimensione profonda dell'essere umano, non un gadget da indossare a seconda dell'umore come molti credono, e meriterebbe un dibattito più serio di quello a cui assistiamo, dove la complessità viene schiacciata in slogan e le persone diventano bandierine di guerre culturali che nulla hanno a che fare con loro. Uno dei cavalli di battaglia di chi è contro il riconoscimento dell'identità di genere è il caso dei bagni delle donne, emblematico perché quando sono unisex nessuno si strappa i capelli, si entra, si fa quel che si deve, si esce, fine della storia, ma nella narrativa catastrofista diventano improvvisamente il preludio al collasso della civiltà, come se una porta con un simbolo diverso fosse il vero problema della sicurezza femminile. Le paure esistono e non vanno derise, certo, ma vanno distinte dai mostri gonfiati ad arte, considerando che le statistiche non indicano alcuna invasione di predatori mascherati da politiche inclusive e che la violenza contro le donne ha radici molto più profonde di un cartello su una toilette, tipo una cultura patriarcale che esiste da secoli e che stranamente non sembra preoccupare altrettanto chi si agita per i bagni. Ancora più bizzarra è l'idea che l'identità di genere sarebbe un capriccio momentaneo. In Italia non si può cambiare nemmeno un cognome senza Prefetto, tribunale e burocrazia assortita, ma certo, l'identità di genere invece la si cambierebbe tra un caffè e un aperitivo, come se esistesse uno sportello drive-through della transizione dove passi, ordini un genere diverso e in cinque minuti sei a posto. La realtà è che chi affronta un percorso di transizione vive anni di introspezione, valutazioni psicologiche e mediche, costi economici e sociali, e una quotidiana fatica contro una società che ama complicare ciò che non capisce, ridurre tutto questo a un vezzo è semplicemente insultante oltre che profondamente disonesto. Esistono questioni complesse che meritano discussione seria, sport agonistico, sicurezza, tutela dei minori, ma non si affrontano dipingendo le persone transgender come cavalli di Troia dell'apocalisse morale, si affrontano caso per caso, con dati, competenze e un minimo di onestà intellettuale, che evidentemente è merce rara quando c'è da cavalcare l'indignazione per raccattare consenso. Il rispetto dell'identità altrui non sottrae diritti a nessuno, non indebolisce le donne cis riconoscere le donne trans, non minaccia i bambini permettere loro di esplorarsi con supporto professionale, e non manda in frantumi la società accogliere chi non rientra negli stampini tradizionali, anzi, forse l'unica cosa che davvero destabilizza certi equilibri è scoprire che il mondo è più vario e complicato di quanto i loro schemi riescano a tollerare. Certo, ogni diritto richiede un equilibrio, nello sport ad alto livello ci sono discussioni tecniche legittime su equità e vantaggi biologici, nella tutela dei minori serve cautela insieme al supporto, ma quell'equilibrio si cerca con buona fede, non brandendo fantasmi utili solo a litigare e raccogliere like indignati. Le persone transgender esistono, vivono, pagano sulla loro pelle il prezzo della propria identità molto prima che qualcuno twitti indignato in loro nome o le trasformi in spauracchio elettorale, possiamo discutere di tutto, politiche, limiti, regole, ma non possiamo farlo fingendo che siano problemi viventi invece che esseri umani con esperienze concrete, storie personali, dignità che meriterebbe di non essere calpestata ogni volta che serve un nemico comodo per una campagna mediatica. Il mondo è più vario di quanto certi schemi riescano a tollerare, e l'unica cosa davvero destabilizzante, alla fine, è che il semplice rispetto sembri più rivoluzionario delle ideologie che lo temono, come se riconoscere che le persone sono diverse e complesse fosse un attacco alla civiltà invece che, banalmente, il requisito minimo per viverci insieme senza farsi la guerra per sport.
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