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C’è un’immagine che più di altre descrive la fase politica che stiamo attraversando, un immobiliarista newyorchese, dotato soltanto di un telefono e della fiducia personale del presidente eletto, impegnato a discutere con un alto consigliere di Vladimir Putin un possibile assetto postbellico dell’Ucraina. Non è satira, non è parodia, è il presente. E il solo fatto che questo scenario non provochi più un trauma ma, al contrario, si inserisca nel flusso ordinario delle notizie, dice molto su come stiamo ridefinendo—o più spesso dissolvendo—i fondamenti della politica internazionale.
L’episodio Witkoff, al di là della sua apparente tragicomicità, merita di essere letto come un sintomo. Un sintomo di ciò che in filosofia politica chiamiamo personalizzazione del potere, un fenomeno in cui la legittimità non deriva più da istituzioni, procedure o competenze, ma dalla vicinanza al leader. Il politico non è più garante, ma datore di incarichi. Il consulente non è più esperto, ma uomo di fiducia. In questo senso, la geopolitica degli amici di Mar-a-Lago non è un’anomalia, è la logica conseguenza di una trasformazione strutturale.
Da almeno due decenni assistiamo alla progressiva sostituzione della diplomazia con la negoziazione transazionale. L’idea, tipicamente trumpiana, secondo cui “un accordo è un accordo” riassume la riduzione del politico a scambio, del conflitto a trattativa commerciale, della sovranità a asset negoziabile. Se un paese invade un altro, il problema non è la violazione di principi, ma la gestione del costo. E se l’aggressore è disposto a concedere qualcosa—qualsiasi cosa—questo è già considerato “realismo”.
Ma il punto, filosoficamente più inquietante, è che questa logica non proviene solo da Trump. Egli è semplicemente il volto più evidente di un processo molto più vasto, che coinvolge entrambe le sponde dell’Atlantico. L’architettura istituzionale costruita dopo il 1945—quella che pretendeva di contenere la forza entro regole, impegni, alleanze e procedure—sta cedendo perché le sue premesse culturali sono state erose. La fiducia nella competenza tecnica, nella diplomazia professionale, nella stabilità degli impegni internazionali: tutto questo è diventato fragile, discusso, reversibile.
Il caso ucraino, in questo senso, è quasi paradigmatico. L’idea che la sopravvivenza di uno Stato aggredito dipenda non da un’alleanza, non da un trattato, non da un sistema di sicurezza collettiva, ma dall’umore politico del momento negli Stati Uniti segnala il ritorno a un modello pre-moderno di politica internazionale. Non più ordine, ma corte. Non più strategia, ma cerchia. Non più diritto, ma favori.
Il dramma che si apre per Kiev, costretta a negoziare sotto ricatto geopolitico e stanchezza occidentale, non riguarda solo l’Ucraina. Riguarda l’idea stessa che i valori democratici possano sostenersi senza una volontà politica forte e coerente. In termini filosofici: riguarda la crisi del normativismo liberale, che per trent’anni ha dato per scontato che il mondo si muovesse naturalmente verso più cooperazione, più legalità, più ordine condiviso. Ma la storia non è un fiume che scorre da solo, e oggi scopriamo di aver navigato a favore di corrente senza accorgerci che la corrente stava rallentando.
La politica americana, con le sue reazioni indignate e prive di un’alternativa, rivela un’altra verità: la crisi non è solo istituzionale, è identitaria. Gli Stati Uniti non sanno più se vogliono essere una potenza garante dell’ordine mondiale o una grande nazione impegnata solo nei propri affari interni. L’Europa, dal canto suo, è troppo divisa e troppo esitante per assumere un ruolo autonomo. Il risultato è un vuoto normativo e strategico che gli attori autoritari riempiono con abilità, perché dove la democrazia esita, la forza agisce.
L’aspetto più cupo, però, è la normalizzazione di tutto questo. Il fatto che nessuno si scandalizzi davvero di un intermediario improvvisato—che sia un immobiliarista, un genero presidenziale o un miliardario amico del leader—rivela che abbiamo smesso di credere nella distinzione tra ruoli pubblici e rapporti privati. Che riteniamo la competenza un optional. Che consideriamo la diplomazia non un’istituzione, ma un servizio che il leader può distribuire come un favore.
In fondo, ciò che vediamo oggi non è altro che il ritorno di un mondo che pensavamo di aver superato. Un mondo in cui la sicurezza dei popoli dipende dai rapporti personali tra potenti, un mondo in cui le guerre non finiscono con trattati, ma con accordi opachi tra individui. Un mondo in cui i piccoli Stati devono chiedersi se resistere valga la pena, sapendo che le promesse delle grandi potenze potrebbero cambiare con un’elezione.
La domanda che resta, guardando Kiev sfiancata e l’Occidente oscillante, non è solo “che cosa è accaduto?”. La vera domanda di filosofia politica è: che cosa siamo diventati?
E, soprattutto, cosa crediamo ancora di dover difendere?
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