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... lo guardi e sembra un numerino qualsiasi, innocuo come la data sullo scontrino del supermercato, e invece è uno di quei codici segreti dell’universo che, se ci pensi troppo, rischi di passare la notte a fissare il soffitto chiedendoti chi abbia deciso che dovesse essere proprio così e non un po’ diverso. Perché se fosse diverso, anche di poco, noi non ci saremmo; niente atomi stabili, niente chimica, nessuna vita a interrogarsi su di lui. Ed è questo che rende alfa così affascinante: non è elegante come π, che almeno capisci da dove salta fuori, ma è un numero piantato lì senza un vero perché, una specie di cartello cosmico che ti dice “queste sono le regole dell’elettromagnetismo”, senza offrirti un manuale di istruzioni. Sommerfeld nel 1916 ci inciampò cercando di capire perché le righe spettrali degli atomi si sdoppiassero come se l’universo avesse deciso di parlare con voce doppia, e nel tentativo di rimettere ordine tra orbite ellittiche, relatività e intuizioni sullo spin, saltò fuori questo valore puro, adimensionale, più un’idea che un numero, così universale che qualunque civiltà avanzata, anche una che misura le distanze in aree di pelle di drago stellare, arriverebbe allo stesso identico 1/137. È come un linguaggio comune inciso nella matematica del cosmo: se lo mandi nello spazio stai dicendo “abbiamo capito come funziona la luce”, un messaggio di civiltà lanciato nel vuoto. E il bello è che questo numero orchestra tutto: decide quanto forte interagiscono le particelle cariche, come gli elettroni abbracciano i nuclei, quanto facilmente gli atomi si legano per formare molecole, e da lì nasce la chimica, e da quella la vita. Se alfa fosse più grande, qualcosa tipo 1/110, l’elettromagnetismo diventerebbe un despota, gli elettroni resterebbero incollati ai nuclei, i legami sarebbero troppo rigidi, la materia troppo nervosa per permettere qualcosa di complesso. Se fosse più piccolo, diciamo 1/200, tutto diventerebbe evanescente, gli atomi si terrebbero a distanza, le molecole si sfilaccerebbero e il DNA sarebbe solo un sogno impossibile. Si calcola che basti uno scarto del 4% per distruggere la nucleosintesi stellare, niente carbonio, niente ossigeno, cioè niente di ciò che conosciamo. E allora è inevitabile chiedersi se siamo qui per una botta di fortuna cosmica o perché l’universo, in qualche modo, è stato “sintonizzato” sulla vita. È il genere di domanda che manda in crisi anche i fisici: Pauli si fece prendere talmente dalla vertigine da discuterne con Jung, convinto che quel numero avesse un retrogusto simbolico; Feynman lo chiamava “mistero maledetto”, una provocazione appesa al muro della natura. I teorici vorrebbero che alfa saltasse fuori con la stessa naturalezza con cui viene fuori π, come conseguenza inevitabile di una geometria profonda, ma per ora resta lì, ostinata, come se ci dicesse che non tutto ciò che esiste è spiegabile in modo ordinato. E il vero brivido è che potrebbe perfino non essere una costante assoluta: forse variava miliardi di anni fa, forse cambia leggermente nello spazio, forse l’universo non è poi così uniforme come ci piace immaginarlo. Le osservazioni dai quasar e dal Webb oscillano tra il sì, il no e il “non ci abbiamo capito nulla”, mentre l’idea che le leggi fisiche possano non essere identiche ovunque mette un pizzico di inquietudine, come scoprire che il pavimento sotto ai piedi non è proprio stabile. Così restiamo qui, a guardarci questo 1/137 come si guarda un enigmatico sorriso cosmico: un numero che non si lascia definire del tutto, che regola il nostro essere ma non rivela perché, e che alla fine ci ricorda che viviamo in un universo in cui basta un valore microscopico per far sì che tutto esista invece di non esistere.

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