COLPO AL CERCHIO E ALLA BOTTE
Non chiamatela contraddizione, né tantomeno incidente di percorso. Quello a cui assistiamo nella gestione migratoria italiana non è il frutto di una schizofrenia involontaria, ma l’applicazione rigorosa di un metodo politico. Un metodo che si regge su un paradosso tanto evidente quanto rimosso dal dibattito pubblico. La simultanea necessità di aprire le porte per salvare l’economia e di chiuderle a parole per salvare il consenso.
I numeri, solitamente freddi e inappellabili, raccontano una storia che la propaganda fatica a contenere. Il governo ha programmato quasi mezzo milione di ingressi regolari per il triennio 2026–2028. Parliamo di oltre 165mila lavoratori l’anno. Non sono cifre lanciate a caso, ma la risposta disperata alle preghiere di Confindustria, delle associazioni agricole, del settore turistico e dell’assistenza familiare. L’Italia, strangolata dall’inverno demografico, ha un bisogno strutturale, quasi fisiologico, di manodopera straniera. Nei cantieri del PNRR, nelle serre del Sud, nelle RSA del Nord, la presenza migrante non è una scelta ideologica...è l’unica diga contro il collasso produttivo.
Eppure, questa verità aritmetica viene sistematicamente oscurata da una nebbia retorica sempre più fitta. Mentre si firmano i decreti per far entrare forza lavoro, la stessa maggioranza continua ad alimentare una narrazione apocalittica fatta di "sostituzioni etniche", minacce esistenziali e slogan sulla "remigrazione" agitati da figure chiave come Salvini o Vannacci. Siamo di fronte alla quintessenza del cinismo politico contemporaneo. Si tengono aperti i rubinetti dell’immigrazione perché il Pil lo impone, ma si soffia sulla paura perché i sondaggi lo premiano.
Il risultato è un sistema che parla una lingua in televisione e ne pratica un’altra in Gazzetta Ufficiale. Ma questa doppiezza non è priva di vittime. Il "Decreto Flussi", strumento teoricamente deputato a gestire questi ingressi, si rivela strutturalmente inadeguato, trasformandosi in una macchina che produce irregolarità. Procedure farraginose e quote scollegate dalla domanda reale spingono migliaia di persone nell’ombra, in attesa del prossimo condono che non risolverà il problema, ma si limiterà a tamponarlo.
Qui sta il cuore oscuro del metodo... l’irregolarità non è un fallimento del sistema, ma un suo prodotto funzionale. Un lavoratore irregolare è utile due volte. È utile a chi cerca manodopera a basso costo e senza diritti, ed è utilissimo a chi cerca un nemico pubblico da additare. Si alimenta così una confusione semantica deliberata tra irregolarità amministrativa e criminalità penale. Lo straniero senza documenti diventa, nell’immaginario collettivo, il criminale per antonomasia, capro espiatorio perfetto per coprire disagi sociali che hanno radici ben diverse dall’etnia, come la marginalità e l’assenza di welfare.
Anche la politica estera finisce ostaggio di questa recita. Accordi come il Piano Mattei o il protocollo con l’Albania vengono venduti come panacee, soluzioni definitive per fermare gli sbarchi e moltiplicare i rimpatri. La realtà dei dati, con rimpatri fermi a poche centinaia al mese, meno del periodo pre-Covid, ci dice altro. La gestione dei flussi è una merce di scambio internazionale costosa e poco efficace, lontana anni luce dalle semplificazioni da talk show.
Il vero nodo, in definitiva, è l’assenza di onestà intellettuale. Ammettere che l’Italia dipende dall’immigrazione richiederebbe il coraggio di costruire politiche di integrazione serie, investimenti, formazione, accoglienza diffusa. Richiederebbe di smettere di usare la paura come un bancomat elettorale. Ma finché l’emergenza renderà più della soluzione, e finché il cinismo costerà meno della verità, l’ipocrisia rimarrà non un difetto da correggere, ma la trave portante del sistema Italia.
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