SCACCO ALLO ZAR
La guerra in Ucraina si sta trasformando nel Vietnam russo, ma con una differenza fondamentale che rende l’uscita dal conflitto infinitamente più complessa e pericolosa. Come nel Vietnam americano, Mosca è impantanata in una guerra di logoramento che consuma risorse umane ed economiche a ritmi insostenibili, con obiettivi massimalisti ormai irraggiungibili e una prospettiva di vittoria che si allontana invece di avvicinarsi. Ma mentre gli Stati Uniti poterono ritirarsi grazie alle pressioni di una società civile libera, di media indipendenti e di un sistema democratico capace di assorbire la sconfitta, Putin ha costruito un regime in cui tutte queste valvole di sfogo sono state metodicamente sigillate.
Il controllo mediatico totale, la repressione del dissenso, l’atomizzazione della società e soprattutto la personalizzazione estrema della guerra hanno creato una situazione in cui qualsiasi forma di ritirata equivarrebbe non solo a una sconfitta strategica, ma alla fine politica, e probabilmente fisica, del presidente russo. È questo il vero nodo gordiano del conflitto.
Putin non può dichiarare vittoria, perché gli obiettivi del febbraio 2022 [rovesciare il governo ucraino, impedire l’adesione alla NATO, ridurre l’Ucraina a Stato vassallo] sono oggi lontanissimi. Non può ritirarsi, perché significherebbe ammettere una sconfitta storica in un sistema costruito sul culto della forza. Non può negoziare da una posizione di forza, perché il tempo lavora contro di lui...un’economia sempre più militarizzata, sanzioni che mordono nel lungo periodo, perdite umane crescenti e un esercito che ha già bruciato le sue riserve migliori nei primi mesi di guerra.
Qui sta la differenza decisiva con il Vietnam americano. Gli Stati Uniti persero quella guerra ma rimasero una democrazia funzionante, cambiarono presidenti, politiche e strategie. La sconfitta non distrusse il sistema. Per Putin, invece, perdere questa guerra significa probabilmente perdere tutto. È questa equazione esistenziale, più che qualsiasi calcolo militare, che lo spinge a proseguire il conflitto ben oltre ogni razionalità strategica, trasformando una guerra lampo in un logoramento potenzialmente pluriennale, con il rischio probabile di una "belfastizzazione" dei territori occupati.
Le opzioni di uscita sono poche e tutte problematiche. Un collasso interno richiederebbe una crisi sistemica abbastanza profonda da scuotere il regime, ma il Cremlino ha dimostrato una notevole capacità di adattamento. Un golpe militare resta improbabile, anche se non impossibile, e presupporrebbe che le élite arrivino a considerare Putin un pericolo esistenziale per la Russia stessa. Un accordo imposto dall’esterno potrebbe permettergli di salvare la faccia, ma richiederebbe troppe condizioni favorevoli per apparire realistico.
Lo scenario più probabile rimane quindi la “coreizzazione” del conflitto: fronte congelato, nessuna pace formale, tensione permanente. Una non-vittoria che Putin potrebbe vendere internamente come difesa del Donbass, pur essendo lontanissima dalle promesse trionfalistiche del 2022.
Il vero pericolo strategico, però, sta nella disperazione di un regime senza via d’uscita. Putin ha trasformato una guerra di conquista in una questione di sopravvivenza personale, costruendo una trappola che si stringe man mano che il conflitto continua. Le élite russe appaiono passive, ma probabilmente stanno solo aspettando, calcolando quando il costo di sostenerlo supererà il rischio di abbandonarlo.
La questione, ormai, non è se Putin possa vincere questa guerra, è chiaro che non può, ma se e come il sistema russo riuscirà a trovare una via d’uscita prima che il prezzo diventi insostenibile. E soprattutto cosa sarà disposto a fare un leader senza via d’uscita che controlla il più grande arsenale nucleare del mondo. Questa è la vera eredità del Vietnam russo, non solo una sconfitta strategica, ma una trappola esistenziale dalle conseguenze potenzialmente molto più gravi della guerra stessa.
Commenti
Posta un commento