UN SOLO LANCIO DI DADI

Quando si parla di probabilità, di dadi, di eventi che accadono o non accadono, ci si accorge presto che l'infinito non è un numero ma una vertigine, e che proprio per questo non ci aiuta a capire ciò che davvero conta. Se lanci un numero infinito di dadi, la probabilità che escano tutti uguali è zero, non perché sia impossibile, ma perché l'infinito diluisce ogni possibilità fino a cancellarla. È come cercare un volto preciso in un oceano di volti, non lo trovi perché ce ne sono troppi. Gli eventi di misura zero esistono, ma sono così dispersi nell'infinito da diventare irrilevanti, come un punto su una retta infinita che ha posizione ma non lunghezza. È lì, eppure è come se non ci fosse.

E allora, paradossalmente, è proprio il limite a rendere possibile la comprensione, non l'infinito. Una sola vita, un solo lancio, un solo dado che rotola sul tavolo dell'esistenza. È lì che si concentra tutto ciò che può essere compreso, scelto, intuito. L'infinito disperde, il limite lega. L'infinito sfoca, il limite mette a fuoco. L'infinito allontana, il limite avvicina. La finitezza non è una privazione ma una concentrazione: una vita sola non è meno di infinite vite, è più densa. Ogni scelta conta perché non c'è un "dopo" in cui rimediare, ogni istante brucia perché non si ripete.

E forse è per questo che l'idea di Dio non si lascia afferrare attraverso infiniti tentativi, infinite reincarnazioni, infinite vite che si accumulano come lanci di dadi che non portano mai a una faccia comune. Non è un caso che anche le tradizioni che parlano di reincarnazione non la intendano come un dono, ma come un ciclo da spezzare. Il SAMSARA non è una benedizione, è una ruota che gira a vuoto. La liberazione è proprio nell'uscita dall'infinito, nel raggiungere quel punto finito in cui tutto si compie. Anche lì, dunque, il limite è la meta, non l'ostacolo.

Se Dio esiste, e qui non serve dimostrarlo come si dimostra un teorema, perché la logica non è l'unico strumento della mente, allora la sua comprensione non può essere il risultato di un processo infinito, ma di un istante finito che si apre come una fenditura nella continuità del tempo. È il kairos dei greci, non il tempo che scorre [chronos], ma il tempo opportuno che irrompe, l'attimo che non si misura in durata ma in intensità. Una vita sola, proprio perché limitata, concentra la possibilità di capire. È come se il limite fosse la lente che mette a fuoco ciò che l'infinito sfoca.

L'uomo che vive una sola vita è costretto a guardare, a scegliere, a rischiare, a credere o a non credere, e proprio in questo rischio si apre la possibilità della comprensione. Se avessimo infinite vite, infinite occasioni, infinite ripetizioni, la probabilità di cogliere il senso di Dio sarebbe paradossalmente zero, come la probabilità che infiniti dadi mostrino la stessa faccia. L'infinito ci deresponsabilizzerebbe, ci toglierebbe l'urgenza, ci priverebbe della tensione che rende la domanda su Dio autentica. Senza la morte, la vita sarebbe un rumore di fondo. Con la morte, ogni istante può diventare rivelazione.

Una sola vita, invece, è come un dado lanciato una sola volta. Tutto è lì, tutto è adesso, tutto è irripetibile. E proprio questa irripetibilità apre lo spazio del sacro. Non perché garantisca una risposta, ma perché rende possibile la domanda. C'è una logica paradossale in tutto questo, che forse solo la poesia o la mistica sanno dire fino in fondo: che il meno contiene il più, che il limite apre invece di chiudere, che la morte non è il contrario della vita ma la sua condizione di senso.

E forse Dio, se esiste, non chiede altro che questo...non infiniti tentativi, ma un solo sguardo che, nel breve arco di un'esistenza, riesca a cogliere che il limite non è una condanna, ma la condizione stessa della rivelazione. Non si trova Dio diluendosi nell'infinito, ma concentrandosi nel finito. Non moltiplicando i tentativi, ma abitando l'unico tentativo che ci è dato. Non nell'eternità che annulla, ma nell'istante che brucia.

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