VALDITARA E IL LUPO GENDER

Allora, fatemi capire...davvero, in tutto il centro-destra, non c’era un solo cervello capace di leggere un libro senza farsi il segno della croce? Nemmeno uno che avesse pubblicato qualcosa di più impegnativo di un post su Facebook? No, niente. 

Giorgia Meloni, somministratrice unica di tranquillanti alla pancia del Paese, per la scuola ha scelto il ministro perfetto. Uno che della realtà scolastica sa poco, ma delle paure elettorali sa tutto. Il risultato è una scuola trasformata in scenografia per comizi contro “l’indottrinamento gender”, mentre l’unico indottrinamento sistematico resta quello alla propaganda. In un’Italia con dispersione scolastica ancora vicina al 10%, con picchi molto più alti in alcune regioni del Sud, il problema urgente non è che gli studenti scappano dalle aule, ma che potrebbero imbattersi in una lezione di educazione sessuale. Così si partoriscono emendamenti per limitare l’educazione sessuo‑affettiva, in nome della crociata contro una “teoria gender” che neppure chi la evoca è in grado di definire. Il ministro dell’Istruzione e del Merito [il merito è suo] trova il tempo di dire “no a bambini di otto anni subissati di teorie gender” e di opporre il suo slogan preferito, “sì all’educazione sessuale, no all’indottrinamento gender”, senza spiegare dove finisce l’educazione e dove inizi la fantasia, mentre alle associazioni più militanti contro i diritti Lgbt si aprono le porte del ministero più facilmente che ai precari della scuola. Se si guarda alla realtà, la dispersione scolastica resta altissima proprio dove servirebbero più risorse, con scuole spesso in edifici vecchi, classi sovraffollate, abbandono concentrato nelle aree più fragili e un sistema che promette interventi strutturali e poi si perde in campagne simboliche. Per ristrutturare scuole, stabilizzare insegnanti, finanziare orientamento e supporto psicologico servono soldi, serietà e competenza; per urlare “al lupo gender” basta un comunicato e un’intervista ben piazzata. Nel mondo normale, gli studi di genere sono un’area di ricerca interdisciplinare che coinvolge sociologia, storia, diritto, psicologia, biologia, e che serve a capire come nascono discriminazioni, stereotipi e violenze, anche nelle scuole. Nel mondo del governo, invece, “gender” è una parola passe‑partout da infilare ovunque per evitare di parlare di femminicidi, educazione al consenso, bullismo omotransfobico e salute mentale degli adolescenti. Il copione è semplice e redditizio, si agita lo spettro del “gender” che insidia i bambini, si invoca il sacro “consenso informato” dei genitori come scudo contro l’immaginario indottrinamento, si sposta il dibattito dai problemi veri alle leggende metropolitane, salvo poi fare marcia indietro quando il divieto di educazione sessuale diventa talmente insostenibile da risultare ridicolo anche agli alleati. Funziona perché spaventa i nonni, tranquillizza le parrocchie, garantisce titoli sui giornali amici e copre l’assenza di qualsiasi piano serio per la scuola oltre le solite promesse a costo zero. In un Paese serio, a guidare l’istruzione verrebbero chiamati pedagogisti, studiosi, dirigenti con esperienza, persone che sanno cos’è un piano didattico personalizzato e perché si investe in orientamento e supporto psicologico. In Italia, invece, l’incarico finisce a chi si è specializzato nel dire le frasi giuste al pubblico giusto, nel trasformare ogni questione educativa in un talk show ideologico, salvo poi correggere il tiro a metà quando le polemiche scappano di mano. Il punto, forse, è proprio questo: una scuola che insegna a pensare, dubitare, verificare i fatti è incompatibile con chi campa di slogan e paure morali, mentre è molto più comoda una scuola che educa a temere, ad obbedire, ad accettare che la priorità del ministero non sia riparare i soffitti che crollano, ma dare la caccia a un “gender” che esiste solo nelle loro campagne elettorali.

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