VEGANESIMO NOSTALGICO

[Questa bustina è nata da una discussione avuta al pranzo di Natale con un'ospite vegana...la quale ha mangiato un menù a parte. Ha mangiato "arrosto", "salumi", "formaggi", addirittura la "mozzarella di bufala" e altre imitazioni.]

Al di là della naturalezza dei cibi tradizionalmente adatti a una dieta vegana, vale davvero la pena fermarsi a riflettere su una tendenza sempre più diffusa fra i vegani, questa ossessione quasi compulsiva di emulare carne, formaggi e derivati animali, come se il gesto etico della rinuncia non bastasse a se stesso e dovesse essere continuamente accompagnato da una sorta di nostalgia gastronomica, da un rimpianto del sapore perduto che finisce per trasformarsi in un paradosso esistenziale. Per replicare sapori, consistenze e comportamenti in cottura, molti prodotti vegani finiscono inevitabilmente per essere fortemente lavorati a livello industriale, con liste di ingredienti lunghe come litanie, processi complessi che richiedono tecnologie avanzate, e se uno facesse davvero la prova al supermercato e leggesse cosa c'è nell'affettato vegano troverebbe una sequenza di sostanze che sembrano uscite da un laboratorio di chimica più che da una cucina, nulla di sbagliato in senso assoluto forse, ma certamente molto distante dall'idea di cucina semplice, autonoma e riproducibile fra le mura domestiche, soprattutto considerando la frenesia e il poco tempo della vita moderna che ci costringe a scelte rapide e spesso poco consapevoli. Il risultato è che per molte persone diventa difficile cucinare da sole, si finisce per dipendere dal prodotto pronto, mangiare spesso le stesse cose, con poca fantasia e scarsa varietà reale, una varietà che è solo apparente, data dalle forme, dai burger, dai nuggets, dagli affettati, ma non dalla sostanza, non dalla ricchezza autentica di sapori e combinazioni che la natura vegetale offrirebbe se solo sapessimo interrogarla diversamente. A questo si aggiunge un altro nodo cruciale, quello degli integratori, perché una dieta vegana può certamente essere equilibrata, nessuno lo nega, ma richiede conoscenza e pianificazione, e quando però si basa soprattutto su cibi imitativi e industriali, gli integratori smettono di essere un supporto mirato, un aiuto consapevole per colmare lacune specifiche come la vitamina B12, e diventano invece una necessità strutturale, un pilastro portante senza il quale l'intera architettura alimentare crolla, segno che forse qualcosa nel sistema non funziona come dovrebbe. La domanda allora è davvero semplice ma radicale... perché continuare a inseguire ciò da cui si è scelto di prendere distanza, perché questa corsa affannosa verso l'imitazione del modello carnivoro quando la scelta vegana dovrebbe rappresentare proprio una rottura, un nuovo inizio, la costruzione di un'identità gastronomica autonoma e non dipendente? C'è qualcosa di profondamente contraddittorio nel rifiutare eticamente la carne e poi desiderare disperatamente che i fagioli abbiano il sapore, la consistenza, l'aspetto della bistecca, come se il nostro palato fosse rimasto prigioniero di ciò che la nostra coscienza ha respinto, come se non riuscissimo davvero a liberarci dal paradigma dominante e dovessimo continuamente negoziare con esso, cercando compromessi che finiscono per svuotare di significato la scelta originaria. Meno imitazione e più autonomia, meno laboratorio e più cucina, questo dovrebbe essere il grido di battaglia, ma quanti sanno davvero creare un piatto che non sia la solita minestra o verdura cotta, quanti hanno gli strumenti culturali, il tempo, la pazienza per esplorare il vastissimo repertorio della cucina vegetale mondiale, dalle tradizioni indiane a quelle mediorientali, da quelle mediterranee a quelle asiatiche, tutte ricche di piatti che non imitano nulla perché non ne hanno bisogno, perché nascono da una sapienza antica che conosceva il valore intrinseco dei vegetali? E d'altra parte, quanti sanno ricreare la forma e il gusto di una costata di manzo partendo dai fagioli, quanta maestria tecnica, quanta conoscenza scientifica dei processi di trasformazione richiede questa alchimia moderna, e soprattutto: ne vale davvero la pena? Forse il problema sta proprio qui, nel fatto che abbiamo perso la capacità di dare valore a ciò che è semplicemente se stesso, senza bisogno di mascherarsi da altro, abbiamo perso il contatto con quella dimensione elementare della cucina che è trasformazione creativa ma non dissimulazione, che è arte ma non inganno, e in questa perdita c'è qualcosa di più profondo di una semplice questione gastronomica, c'è un sintomo del nostro tempo, della nostra difficoltà ad abitare pienamente le scelte che facciamo, della nostra tendenza a voler sempre negoziare, a non voler rinunciare completamente a nulla, a cercare surrogati che ci permettano di mantenere un piede in due scarpe diverse. La frenesia della vita moderna ci spinge verso la soluzione rapida, il prodotto pronto, ma è proprio questa frenesia che dovremmo forse interrogare, perché se la scelta vegana nasce da un'etica della cura, della consapevolezza, del rispetto per la vita, come può poi tradursi in un consumo acritico di prodotti industriali di cui nemmeno conosciamo la provenienza e la composizione esatta? C'è una dissonanza tra l'intenzione originaria e la pratica quotidiana, e questa dissonanza rischia di trasformare il veganismo da filosofia di vita a semplice categoria di consumo, da scelta radicale a nicchia di mercato, svuotandolo progressivamente del suo potenziale trasformativo. Quello che manca forse è proprio una pedagogia della cucina vegana, non nel senso della ricetta del burger perfetto, ma nel senso di una trasmissione culturale profonda, di una capacità di pensare il cibo vegetale come mondo a sé, con le sue logiche, le sue alchimie, le sue infinite possibilità, senza il bisogno di continuare a misurarlo rispetto al modello carnivoro, perché solo quando avremo sviluppato questa autonomia culturale e immaginativa potremo dire di aver davvero compiuto la scelta che dichiariamo di aver fatto, altrimenti resteremo sempre in quella terra di mezzo in cui si rinuncia a qualcosa senza però abbracciare pienamente l'alternativa, in un limbo fatto di nostalgie e di surrogati che non soddisfano né il corpo né lo spirito.

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