VITA DI MARIO ROSSI

[Mi sono imbattuto in questo video... e mi ha fatto pensare...Per chi non ha possibilità di vederlo lo racconterò].

Immagina un uomo in piedi dentro un quadrato disegnato con il gesso sul marciapiede, pagato cinquanta dollari per non muoversi fino alle cinque e mezza, all'inizio sembra uno scherzo, una di quelle sfide assurde che girano sui social, eppure lui accetta e resta lì, immobile, mentre la vita gli scorre intorno come un fiume che non lo tocca più. Gli amici passano e lo invitano, "vieni con noi in centro", ma lui risponde no, sto lavorando, non posso, e già qui sentiamo un brivido perché capiamo che non è più una questione di soldi, è una questione di identità. Se esco dal quadrato smetto di essere un lavoratore, smetto di valere qualcosa. Una donna corre trafelata, un ladro le ha rubato la borsa, "mi aiuti per favore", grida, e lui, con lo sguardo fisso davanti a sé, "mi dispiace, sono nel mezzo del lavoro", e il ladro sparisce all'orizzonte mentre l'uomo resta piantato lì, fedele al suo niente remunerato. È terribile, eppure familiare. Quante volte anche noi abbiamo detto "non posso, ho da lavorare" a una madre che chiede aiuto, a un amico che ha bisogno di parlare, a un figlio che vuole giocare, perché il lavoro, quel quadrato invisibile che ci disegnano intorno, è diventato il confine sacro della nostra esistenza.

E poi arriva il capo, puntuale, e gli offre un posto fisso, duecento dollari al giorno per fare la stessa cosa, stare fermo, e lui accetta subito, naturalmente, perché chi rifiuterebbe la sicurezza, la promozione, il riconoscimento? Da lì parte la scalata, aumenti del trenta per cento, un appartamento con vista sul ponte, duemila dollari al giorno per continuare a non fare nulla, e ogni volta il capo ripete "te lo sei meritato", come se il merito consistesse proprio nell'obbedienza cieca, nel non aver mai messo in discussione l'assurdità del compito. L'uomo diventa ricco, rispettato, un "asset" prezioso, ma a che prezzo? Ha passato anni, decenni forse, dentro quel quadrato, rinunciando a correre dietro ai ladri, a bere una birra con gli amici, a vivere qualunque cosa accadesse fuori dalle quattro linee.

Alla fine, quando è vecchio e stanco, dice piano "vorrei andare in pensione ora, se possibile", e quelle parole suonano come una supplica, perché in fondo sa che la pensione non è un diritto, è una grazia che il sistema concede o nega. È stato un piacere lavorare con lei, aggiunge, e in quella frase c'è tutta la tragedia. Ha chiamato piacere una vita spesa a non vivere, ha chiamato lavoro una prolungata immobilità, ha scambiato la catena dorata per una corona. Questo piccolo sketch ci guarda dritto negli occhi e ci chiede dove è il tuo quadrato? Qual è la cosa assurda che fai ogni giorno solo perché ti paga, solo perché ti dà un'identità, solo perché hai paura di uscirne e scoprire che fuori non c'è più nessuno ad aspettarti?

Forse la vera libertà non sta nel guadagnare di più restando fermi, ma nel trovare il coraggio di fare un passo fuori dal quadrato, anche a rischio di perdere tutto, perché una vita passata a obbedire per essere ricompensati è una vita venduta a rate, e quando arriva l'ultima rata ci si accorge che il bene acquistato era solo tempo, il nostro tempo, quello che non torna più. L'uomo del video ci lascia con un sorriso amaro, ha conquistato il mondo stando fermo, ma ha perso l'unica cosa che davvero contava, il movimento stesso della vita. E noi, che lo guardiamo ridendo all'inizio e rabbrividendo alla fine, siamo davvero così diversi da lui?

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