CALL 115


La morale del racconto biblico di Mosè: fatti i fatti tuoi! 

Fra tutti i Patriarchi, Mosè è il mio preferito e la sua storia, a mio avviso, è quella che più rappresenta antropologicamente l’Uomo e le sue dinamiche.

Mosè nasce in una famiglia mediorientale che si trova schiava degli egiziani, l’“Occidente” di allora.

Ma, come nell’attuale Occidente, anche allora il problema principale era tagliare le spese inutili, e così si pensa a una spending review “cottarelliana” tra tutte le varie voci di spesa. A causa di lotte intestine, lobby, ecc., si decide di tagliare sulla famiglia degli schiavi e dei poveri, proprio come oggi.

Per un decreto reale, tutti i primogeniti degli schiavi e dei poveracci devono essere messi a morte.

La famiglia di Mosè, per sfuggire a questa riduzione delle spese, imbarca il piccolo in un “gommone” di vimini e lo getta nel fiume Nilo, affidandolo alla benevolenza della Divinità, proprio come oggi molte, ahimè, famiglie affidano un figlio a un gommone e alla benevolenza della Divinità, per il tramite della gente.

L’uomo ha sempre “sfidato” la Divinità, ponendola in situazioni imbarazzanti, chiedendole di fare cose eccezionali, anche contro il normale disegno della Natura, violandone le leggi da Lei poste e, nelle preghiere, addirittura mettendo condizioni: “Se mi fai la grazia, allora prometto che farò...”.

Penso che la Divinità, fintanto che l’umanità era poca, non avesse problemi a farlo, anche per non deludere subito la sua creatura; ma già con Adamo ed Eva le cose si stavano facendo esasperanti e, con la scusa della “mela”, ci ha cacciati. Figuriamoci quando siamo diventati miliardi... lo capisco se ci lascia perdere.

Torniamo al nostro Mosè: non so se avete idea di cosa sia il Nilo da quelle parti, tra ippopotami, coccodrilli, serpenti, nutrie, beccaccine e tanti altri simpatici animaletti. Gettarlo in una cesta di vimini e affidarsi alla sua benevolenza [così che se fosse morto ci avrebbe fatto pure la figura del Dio menefreghista] pareva francamente chiedere troppo...

Il piccolo aveva meno speranze di un tifoso del Cagliari di vedere un nuovo scudetto cucito sulla maglia della sua squadra.

Per rendergli le cose più facili, gli lasciano addosso i “colori” della sua gente invece di metterlo in una cesta di fattura egiziana e nudo.

Ma accadde l’incredibile: il piccolino si salva dal tour faunistico-fluviale e viene addirittura raccolto da un’egiziana, ma mica un’egiziana qualunque: la Faraona in persona.

Come se avesse trovato un gattino sperduto, si convince che quello è un dono di una delle loro divinità e decide di tenerlo con sé. Poi, quando si dice che uno ha fortuna con la C maiuscola...

Il piccolino, ora chiamato Mosè [“salvato dalle acque”], cresce alla corte del Faraone con suo fratellastro, niente meno che il grande Ramses II detto Ramsy [mica bau bau micio micio], con tutti gli onori e lo status di principe.

Ma le cose non possono andare sempre così bene. La vita non è un viaggio comodo in business class su un treno ad alta velocità, piuttosto è viaggiare in terza classe su una littorina e prima o poi ti chiedono conto del biglietto.

E così un giorno Mosè scopre di essere ebreo. Un po’ come se Travaglio scoprisse di essere imparentato con Berlusconi.

Il giovane Mosè a questo punto rischia di morire in quanto primogenito ebreo, ma per sua fortuna, sempre grazie all’intervento della Faraona, viene fatta una legge ad personam salva Mosè e il reato viene dichiarato prescritto.

Ma nonostante uno sia il Faraone, un semidio, hai comunque a che fare con la politica e quindi, su insistenza del vero potente dell’Egitto, il Gran Sacerdote [l’unico che sapeva della misera “mortalità” umana del presunto semidio e quindi l’unico che poteva ricattarlo], Mosè dovette lasciare il palazzo e tornare fra la sua gente, dove si ritrovò di punto in bianco senza nemmeno un diploma professionale di arti e mestieri, sapendo solo fare il prepotente e il perditempo, ciabattando con Ramsy tutto il giorno.

Mentre fancazzeggia in montagna, vede qualcosa che gli cambia la vita: un roveto ardente che non si consuma.

Piccola chiosa: personalmente avrei una spiegazione scientifica al fenomeno. Il roveto, di cui non si conosce la specie botanica [strano, nella Bibbia si tiene sempre a precisare qualsiasi cosa: il sambuco, il sicomoro, il fico, ecc.], doveva essere un arbusto desertico dal fusto spugnoso, evolutosi per trattenere la scarsa acqua piovana o quella tratta dall’umidità dell’aria [Acacia, Tamarix per esempio]. Ora, questa piantina stava proprio sopra un affioramento naturale di idrocarburi. Questi affioramenti si hanno quando gli idrocarburi [solidi come bitume o pece, liquidi o gassosi] fuoriescono dalle rocce serbatoio e arrivano in superficie attraverso spaccature nella roccia, causate spesso dai terremoti [notare che spesso la “teofania” è preceduta da un forte rombo] e in alcuni casi prendono fuoco, magari per un fulmine o a causa di scintille scaturite dal rotolare di pietre che sfregano fra loro.

In pratica, il nostro roveto ardeva come uno stoppino brucia in una lampada, senza consumarsi.

Fin qui tutto spiegabile scientificamente, ma questo roveto faceva anche altro, meno spiegabile... perlomeno senza tirare in ballo il solleone o l’ingestione di certi funghi tipici di quelle montagne: il roveto gli parlava.

La voce [me la immagino col timbro di Luca Ward] lo investe della responsabilità di liberare dalla schiavitù egiziana il suo popolo eletto e che lui li guiderà fino alla Terra Promessa, “con comodo”. Quel “con comodo” deve aver fuorviato Mosè, pensando a un viaggio facile, veloce, in business class, e accetta... poraccio.

Tornato a casa racconta tutto ai suoi familiari e qui accade per davvero un miracolo: gli credono.

Dai, pensateci bene. Torna a casa vostro padre, fratello, zio... insomma uno di famiglia, e vi racconta di aver visto una piantina bruciare senza consumarsi e, soprattutto, che gli parlava preannunciandogli grandi cose. Mah!

Comunque un po’ meno gli credono gli egiziani, gente seria, pragmatica, che come è comprensibile all’inizio non gli danno retta, anzi proprio il contrario [e a ragione, ndr]. 

Ma Mosè, detto “capatosta”, con l’aiuto dei poteri forti scatena l’inferno contro l’Egitto del suo ex fratellastro Ramsy [Luca Ward... VAIIIII], poi si dice “fratellastri serpentastri”.

Irrora i campi con scie chimiche, tinge il Nilo con coloranti lavabili [🤔], libera animali dannosi all’agricoltura, ecc., fino al più vile e criminale colpo: l’uccisione dei primogeniti, degli innocenti [Dio ha sempre amato questa ostentazione di forza, tanto che la ripeterà per la nascita del Figlio, quella volta indirettamente non ostacolandola].

Ramsy alla fine cede e famose rimangono le sue parole, oggi scolpite in geroglifico sul Tempio di Assuan e arrivate a noi tradotte nella Stele di Rosina del Vomero: “QUEL FIGL’INDROCCHIA DI MOSÈ PUÒ LASCIARE L’EGITTO E VAFFANCULBIIIPPP”.

Il primo esodo di massa della storia avviene in modo disciplinato e senza tanti problemi. E pensare che oggi, con il fior fiore delle organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali, Protezione Civile, ecc., anche solo un “bomba day” diventa un casino indicibile.

Ma l’esodo degli ebrei sembra non dover finire dopo breve tragitto. Arrivano infatti sul Mar Rosso, dalle parti dell’attuale Sharm el-Sheik.

Ed ecco che qualcuno comincia a lamentarsi. Come nella vita reale, c’è sempre qualcuno che si lamenta e, nonostante tu ti stia facendo un deretano tanto per lui, lo dà per scontato, insufficiente, fatto nel modo errato e si lamenta.

“Ecco! Ma dove cavolo ci hai portato? Al mare a Sharm el-Sheik, mai sentito, e non c’è un Twiga, un chiringuito, una doccia pubblica, un vucumprà o un venditore di coccobello... NISBA”.

Che schifo di posto. “Si stava meglio quando si stava peggio. Almeno al Cairo avevamo le nostre case, il bar, insomma eravamo schiavi ma tranquilli”.

Ma Mosè, imperterrito, dopo un rapido giro di consultazioni primarie “pilotate”, riconfermato leader del Roveto Ardente [una sorta di ulivo di quei tempi], pur di non dare soddisfazione al Ministro delle Infrastrutture e Piramidi Egiziano e piuttosto che ammettere che costruire un ponte sul Mar Rosso sarebbe stato utile, fa aprire, separandole, le acque del mare.

E fu così che attraversarono dall’altra parte ritrovandosi in pieno deserto.

Non vi dico le lamentele del popolo, le bestemmie si levano altissime e fitte, manco fosse un esodo di veneti.

Per 40 anni girovagarono per il deserto, e qui la mente di Mosè capisce il vero significato di “con comodo”. Quaranta lunghi anni.

Ora, da dove arrivano oltre il Mar Rosso alla Terra Promessa, cartina alla mano, sono circa 450 km. Per farli ci misero 40 anni, fanno circa 30 metri al giorno [😔].

Aaah! Se solo desse retta alla moglie che gli dice di chiedere la strada a qualcuno, ma lui, da buon maschietto, NO, GIAMMAI!

Camminare, seppur 30 metri alla volta in pieno deserto, ha la sua difficoltà. Se organizzi un esodo di 450 km, un Verona-Civitavecchia a piedi, non prevedi di impiegarci 40 anni. Ti porti una provvista di cibo e acqua adeguata alle aspettative, ma per 40 anni sarà sempre e comunque troppo poca.

Non entriamo nel particolare che nel frattempo nascono bambini, crescono, si sposano, hanno a loro volta altri figli e muoiono.

Insomma, un’intera generazione di nomadi on the road.

E Mosè, imperterrito, sempre davanti a tutti, sempre più vecchio, sempre più invecchiato dalle lamentele e bestemmie.

Stanco di stare fra i suoi, con una scusa si allontana e sale sul Monte Sinai portandosi appresso due comode tavole di pietra [ormai i familiari non dicono più nulla, limitandosi solamente a sollevare gli occhi e roteare l’indice della mano all’altezza delle tempie] e lì riceve i famosissimi 10 Comandamenti.

Solo 10, direte voi? E meno male, dico io.

Ci ha salvati il fatto che la tecnologia del tempo non era ancora un gran che e il supporto su cui Mosè scrisse era la pietra, con lenta velocità di scrittura e poca memoria disponibile. Pensate se fosse salito con due memorie SSD da 1 Tb ciascuna; altro che 10 comandamenti!

Ma nonostante tutto questo, nonostante la vetusta età, le infinite lamentele della sua gente, Mosè non ha la gioia e la soddisfazione di entrare nella Terra Promessa... e sapete perché? Perché dubita che da una roccia arsa dal sole ne possa scaturire dell’acqua. Dai, Dio, suvvia, ha 120 anni, 40 anni nel deserto con le continue lamentele del popolo che gli chiede insistentemente “Quando arriviamo?”. Dopo che si è fatto un deretano incredibile per salvarti il popolo [che intanto fancazzeggiava, se ne fotteva e si lamentava] e per una cosuccia del genere lo punisci così?

Per concludere, gente, se doveste vedere un roveto ardere e questi parlarvi, fatevi i fatti vostri e chiamate immediatamente il 115 dei Vigili del Fuoco per farlo estinguere... tutta salute!

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