LA GUERRA DEI MONDI


Nel mio paesello, fino al 1996, era in servizio la linea ferroviaria che da Villafranca portava fino ai Lidi ferraresi, al mare.

Certo, non è il mare della mia Sardegna, ma il mare è sempre il mare e, alla fine, accontenta tutti, anche i più viziati.

Il trenino era attivo soprattutto d’estate, preso d’assalto dai giovani e da qualche mamma con bambini: permetteva una giornata al mare e di svago, con orari comodi.

Nel paesello, benché distante circa 150 km, sembrava di stare a Rimini: si vedeva sempre gente in giro con borse da spiaggia, ombrelloni sottobraccio, borse frigo, asciugamani colorati e quel sorriso tipico della gente di mare.

C’era persino un piccolo negozietto che, in estate, si trasformava in un bazar caraibico, con asciugamani a tema marittimo, accessori da spiaggia, gonfiabili, abbigliamento, eccetera.

La linea era punteggiata da passaggi a livello e da piccole stazioncine, con le classiche casette del casellante o del capostazione, spesso abitate anche dalle loro famiglie.

Soppressa per motivi di convenienza economica, Vigasio si è ritrovata all’improvviso a essere un paesello rurale, senza più colori, senza i sorrisi “da mare” e con abbronzature solo parziali.

Certo, ci sono molte piscine, anche belle e attrezzate… ma vuoi mettere il mare? Il suo profumo, i suoi suoni, i suoi umori?

Nulla di artificiale, niente odore di cloro, mai la stessa replica.

Oltre a rendere il paese più triste, la soppressione del "trenino del mare" ha disseminato lungo il percorso una serie di “zombie edilizi”, edifici abbandonati e lasciati in balia delle intemperie.

Uno di questi si trova proprio alla periferia di Vigasio [oggi ormai inglobata nel tessuto urbano], ed è rimasto lì, per oltre un decennio, a ricordarci i bei tempi in cui anche Vigasio aveva il mare a sole cinque fermate di treno.

Il casello e la casetta sono tuttora di proprietà della società ferroviaria, che non ha mai avviato una procedura di alienazione per trasformarla in abitazione privata.

A nulla sono valse le richieste di alcuni paesani: la società ferroviaria non l’ha mai concessa, adducendo motivazioni economico-immobiliari [tradotto: volevano guadagnarci il più possibile] o tirando in ballo ipotetici cambi di destinazione d’uso, come farne un museo della ferrovia o uno spazio d’arte.

Il tempo però passava e la casetta cadeva a pezzi. Nessuno l’ha più richiesta e dei mirabolanti progetti “open to meraviglia” vigasiani non si è più sentito parlare, né si sono più visti i signori della ferrovia.

Ma un giorno, due anni fa, è arrivata a Vigasio una famiglia “foresta” [non del paese]: padre, madre e un bambino.

Parafrasando Faber: “Appena scesi alla stazione, nel paesino di Vigasio, tutti si accorsero con uno sguardo che non si trattava di italiani vannacciani.”

Al Bar della Stazione [si chiama ancora così], si ferma il tempo. Dopo un attimo di silenzio, un brusio crescente e infine i commenti, uno dei quali mi colpisce più di tutti:

«Arrivano a rubarci il lavoro e a violentarci le donne».

Mi colpisce non solo perché si trattava di una famiglia [stavo per dire Sacra Famiglia], ma perché a dirlo è stato uno dei fannulloni storici del paese: single per scelta altrui, vive di sussidi e scrocco da quando lo conosco — e lo conosco da sempre.

Di quella famiglia, per un po’, non ho più avuto notizie. Poi, durante i miei giri in bici per le campagne, ho visto l’uomo intento a raccogliere zucchine o cavolfiori.

Un giorno, passando davanti all’ex stazione e al bar [la bici mette sete…😎😁], vedo i butèi [i ragazzi] in piedi, col bicchiere in mano, fissare in silenzio la casetta del casellante.

Dalle finestre sgangherate penzolavano tendine colorate. Nel cortiletto, finalmente sgomberato dai rifiuti accumulati nel tempo [e spesso abbandonati nottetempo], c’erano uno stendino con vestiti, un triciclo un po’ malandato e una palla.

C’ERA VITA SU MARTE!

E mi si apre un sorriso.

Chiedo retoricamente che cosa stessero guardando e, in risposta, ricevo da tutti lo stesso gesto: il braccio che, reggendo il bicchiere, indica la casetta.

Quel gesto mi fa sorridere ancora di più. Prendo anch’io un bicchiere, lo alzo e dico: «Sì, brindiamo ai nuovi concittadini».

Nel giro di qualche settimana, la casetta è stata sistemata. Qualcuno riconosceva pezzi che aveva buttato in discarica: una finestra, una porta, mobili, sedie, giocattoli per bambini.

Un riuso in piena regola. Una nuova casa, una nuova vita — sia per le cose che per le persone.

La notizia di “vita su Marte” ha risvegliato i sopiti e menefreghisti sensori della Ferrovia. La società si è ricordata della casetta fatiscente e ha subito mandato un funzionario, in auto aziendale, a notificare lo sfratto per occupazione abusiva. Con tanto di lezioncina morale, poi ripetuta al bar per giustificare l'annosa latitanza.

Nel suo discorso, parlando di diritti calpestati e richieste inevase di case popolari, ha ribadito che se i poveracci iniziano a occupare le case vuote, ne risente il mercato immobiliare.

Ora, la casetta è abitata da anni. La famiglia si è allargata e paga un piccolo affitto a riscatto.

Il padre lavora stabilmente in una delle tante aziende agricole del paese, e ogni tanto si concede una birra al bar [è ateo — incredibilmente ateo! — e pensare che tutti, solo perché di cultura musulmana, lo credevano fervente praticante].

Ha comprato una macchina usata, il figlio maggiore si è diplomato ed è una delle promesse del Vigasio Calcio, la piccola va a scuola, la madre aiuta al centro diurno per anziani e persone fragili del paese.

Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Ma non è sempre così. Anzi, spesso da un “C’è vita su Marte” si passa alla “Guerra dei Mondi”.

I mondi contrapposti sono almeno tre:

1. Il mondo dei gestori dell’edilizia popolare [ALER, ATER, ecc.];

2. Il mondo di chi anela a una casa dignitosa per la propria famiglia;

3. Il mondo terzo, cioè la maggior parte di noi, spesso “ultras” di uno o dell’altro a seconda delle simpatie etniche o politiche del momento.

I primi due mondi sono in perenne conflitto. E come spesso accade, il potere simpatizza per se stesso: ai diritti di uno non corrispondono quasi mai i doveri dell’altro.

E così, al diritto di una famiglia a una sistemazione dignitosa e proporzionata alle proprie capacità economiche, non corrisponde il dovere dello Stato di provvedere.

Sgombriamo subito il campo da equivoci: qui non si parla di occupazioni abusive di alloggi privati o popolari già assegnati o in via di assegnazione.

Chi lo fa è un delinquente e un prevaricatore, soprattutto verso chi è debole e in stato di bisogno.

Parliamo, invece, di occupazioni dettate dalla necessità e di immobili volutamente lasciati sfitti, come la vecchia casetta di una stazione nella provincia veronese.

In Lombardia ci sono circa 20.000 alloggi popolari sfitti e non assegnabili, perlopiù per problemi di manutenzione. In tutta Italia sono oltre 90.000: l’equivalente di una città come Cagliari.

Ora, rivolgendomi al “mondo terzo”: a chi dareste il pollice verso tra un occupante abusivo di un alloggio lasciato vuoto per vent’anni e il gestore di quell’alloggio?

La questione è tornata d’attualità con l’elezione al Parlamento Europeo di Ilaria Salis e la sua presunta occupazione, da attivista per il diritto alla casa, di un alloggio popolare sfitto da oltre vent’anni.

Ulteriori polemiche sono nate quando ha dichiarato di ritenere moralmente legittima l’occupazione di alloggi popolari lasciati sfitti.

Questo ha spaccato il “mondo terzo” in due tifoserie. Da una parte chi, schierandosi con chi non ha una casa né i mezzi per affittarne una, giustifica moralmente certe occupazioni; dall’altra chi, schierandosi con i gestori, le considera comunque inammissibili.

E tu, bustiner, da che parte stai?


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