CAPRA E CAVOLI
Ah, l'Italia! Terra di contraddizioni, di gesticolazioni eloquenti e di politici che riescono nell'incredibile impresa di tenere il piede su due staffe contemporaneamente senza cadere. Parliamo infatti di un Paese che nel 2025 ospita oltre 5,4 milioni di cittadini stranieri residenti - il 9,2% della popolazione totale, mica pizza e fichi - e che in questa legislatura, nei prossimi 3 anni, accoglierà a braccia aperte oltre 500.000 extracomunitari con regolare permesso di soggiorno. Contemporaneamente, questo stesso Paese riesce a mantenere con faccia tosta una narrazione politica secondo cui gli stranieri rappresentano un'invasione, un pericolo, una minaccia alla nostra identità nazionale. Chapeau per la coerenza!
Ma facciamo i conti della serva, come si dice dalle nostre parti. Mentre 217.000 cittadini stranieri acquisivano tranquillamente la cittadinanza italiana nel 2024, i nostri prodi rappresentanti politici continuavano imperterriti a stracciarsi le vesti per l'"emergenza immigrazione". È come se un ristorante pubblicizzasse il miglior menu della città mentre il proprietario va in giro a dire che il cibo fa schifo. Geniale, no? La distribuzione geografica poi è un altro capolavoro: oltre l'11% della popolazione del Nord e del Centro è straniera, proprio dove guarda caso ci sono più lavoro e opportunità. Ma certo, è solo una coincidenza che gli "invasori" vadano esattamente dove l'economia tira di più e c'è bisogno di manodopera.
La vera perla di questa commedia all'italiana è la contraddizione strutturale della nostra destra politica, che riesce nell'incredibile prodezza di governare flussi migratori legali massicci - vantandosene spudoratamente nei talk show, Piantedosi style a Otto e mezzo - mentre contemporaneamente alimenta campagne d'odio contro gli stessi migranti che fa entrare. Perché la gente comune mica fa differenze, mica discerne fra il migrante che delinque e chi lavora. Va "a pelle".
Una strategia elettorale di un cinismo così raffinato che quasi dispiace non poterla ammirare senza riserve: intercettare il malcontento sociale con la retorica xenofoba, ma non rinunciare mai ai benefici economici dell'immigrazione. Geniale, se non fosse disgustoso.
E poi è arrivato il referendum dell'8-9 giugno 2025, quel momento magico in cui gli italiani potevano finalmente esprimersi sulla possibilità di ridurre da dieci a cinque anni il periodo necessario per ottenere la cittadinanza. Udite udite: il quesito ha raccolto "solo" il 66% di consensi, il più basso tra i cinque proposti. Evidentemente, l'idea di accelerare l'integrazione formale di persone che già vivono, lavorano, pagano le tasse e mandano i figli a scuola in Italia da anni era troppo rivoluzionaria per i nostri connazionali. Meglio tenerli in una sorta di limbo burocratico per dieci anni, giusto per essere sicuri che abbiano davvero imparato a bestemmiare correttamente in italiano.
Il consenso "relativamente limitato" al referendum - si fa per dire, eh, parliamo comunque di due terzi degli elettori - si può spiegare facilmente. Prima di tutto, c'è questa romantica concezione della cittadinanza come una sorta di prova di iniziazione che richiede tempi biblici, come se diventare italiano fosse paragonabile a scalare l'Everest o completare un dottorato in astrofisica. Poi c'è il lavoro certosino di anni di comunicazione politica che è riuscita a convincere una parte degli italiani che dare la cittadinanza a chi vive qui da anni equivale praticamente a regalare le chiavi di casa a degli sconosciuti. Infine, non dimentichiamoci del nostro sport nazionale: l'astensionismo referendario, quella forma raffinata di protesta che consiste nel non andare a votare e poi lamentarsi dei risultati.
La divisione politica era scontata come la pasta al pomodoro: centrosinistra compattamente per il "Sì", centrodestra contrario o in fuga verso l'astensione. Persino all'interno del PD sono emerse le solite cautele dell'ala "responsabile", perché si sa che in Italia essere progressisti fino in fondo è sempre un po' pericoloso elettoralmente. Meglio rimanere moderatamente progressisti, che non si sa mai.
Ma la ciliegina sulla torta è il confronto europeo. L'Italia, con i suoi dieci anni di residenza richiesti per la cittadinanza, si piazza orgogliosamente tra i Paesi più restrittivi d'Europa. Francia, Germania, Regno Unito richiedono periodi molto più brevi, ma loro cosa ne sanno di integrazione? Noi italiani abbiamo capito che il segreto è far aspettare il più possibile, così nel frattempo gli stranieri possono godersi appieno l'esperienza di contribuire al sistema fiscale e previdenziale senza avere diritti politici. Una sorta di tassazione senza rappresentanza che i nostri antenati americani avrebbero sicuramente apprezzato.
Centinaia di migliaia di stranieri lavorano, pagano le tasse, si ammalano e si curano nel nostro servizio sanitario, mandano i figli nelle nostre scuole, ma rimangono esclusi dalla partecipazione politica per una decade abbondante. È un po' come invitare qualcuno a cena, farlo cucinare, apparecchiare e lavare i piatti, ma non farlo sedere a tavola fino a quando non ha dimostrato per dieci anni di saper usare correttamente la forchetta.
La sfida per il futuro, ci dicono gli esperti, è costruire un consenso sociale più ampio sui benefici dell'integrazione. Ma perché mai dovremmo privarci del piacere di questa schizofrenia collettiva? È così bello poter dire "gli stranieri sono un problema" mentre contemporaneamente li assumiamo per badare ai nostri anziani, pulire le nostre case, raccogliere i nostri pomodori e tenere in piedi settori interi dell'economia. È una forma d'arte, quasi.
Il referendum del 2025 ha almeno avuto il merito di rimettere sul tavolo la questione, anche se con risultati che dimostrano quanto siamo bravi a complicarci la vita da soli. I numeri parlano chiaro: l'Italia ha bisogno di politiche più coerenti e inclusive. Ma la coerenza è sopravvalutata, no? È molto più divertente continuare con questa commedia dell'assurdo dove facciamo entrare mezzo milione di persone all'anno e poi ci stupiamo che diventino parte integrante della società.
L'Italia del futuro dovrà scegliere, prima o poi, se continuare con questa ipocrisia istituzionalizzata o abbracciare finalmente una visione coerente con i fatti. Il referendum ha mostrato che una parte significativa della società è pronta al cambiamento, ma conoscendo i nostri tempi biblici per qualsiasi riforma, probabilmente ne riparleremo tra altri dieci anni. Nel frattempo, continueremo a essere il Paese che sa accogliere senza integrare, che sa sfruttare senza riconoscere, che sa contraddirsi con una maestria che farebbe invidia ai più grandi illusionisti. Dopotutto, siamo italiani: se non sappiamo vivere nelle contraddizioni, chi può farlo?
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