CHIUSO PER NOZZE
Quando Jeff Bezos ha scelto Venezia per sposarsi, probabilmente non pensava di aprire un dibattito filosofico sul concetto di bene comune. D'altronde, quando sei abituato a vivere in orbita sopra le preoccupazioni del mondo reale, certi dettagli ti sfuggono. Eppure eccoci qui, a chiederci: che senso ha parlare di “patrimonio dell’umanità” se poi basta una carta di credito sufficientemente pesante per affittarlo?
Venezia non è solo una città: è un simbolo, un monumento vivente, un pezzo di civiltà dichiarato dall’UNESCO patrimonio di tutti.
Sì, proprio tutti: dall’influencer di passaggio al contadino del Sud del mondo. È un’idea nobile, poetica, quasi ingenua: che ci siano luoghi che non appartengono a nessuno proprio perché appartengono a tutti. Ma poi arriva Bezos e, con la stessa nonchalance con cui si compra uno yacht da 500 milioni, trasforma quel patrimonio collettivo in uno sfondo esclusivo per il suo ricevimento nuziale.
Il problema non è lui, è il messaggio che veicola. Non è solo un uomo ricco che festeggia, è il simbolo vivente di un mondo dove tutto – persino l’inaccessibile – può essere impacchettato, affittato e chiuso a chiave per qualche giorno. L’equivalente contemporaneo del re medievale che chiude la cattedrale al popolo per il proprio banchetto.
Abbiamo sempre distinto tra spazio privato e spazio pubblico: il primo per i nostri bisogni, il secondo per riconoscerci come società. Venezia, per definizione, è uno spazio pubblico. È il luogo dove l’umanità si specchia nella bellezza che sa creare. E trasformarla per tre giorni in un set blindato è come usare la Cappella Sistina per girare un reality show.
John Rawls, che di senso civico qualcosa ne capiva, proponeva un esperimento mentale semplice: decidi le regole di una società senza sapere se sarai ricco o povero [ne ho parlato in questa Bustina]. In quel contesto, permetteresti che i patrimoni dell’umanità possano essere riservati ai miliardari? Probabilmente no. Perché, senza sapere il tuo posto nella scala sociale, intuisci quanto sia vile l’idea che ciò che è di tutti possa essere temporaneamente “sospeso” per chi se lo può permettere.
Ma qui non si tratta solo di soldi. Si tratta di potere simbolico. Bezos non ha semplicemente “affittato Venezia”: ha messo il suo nome sopra uno dei luoghi più carichi di significato del pianeta, come a dire “vedete questo posto che dovrebbe rappresentare la bellezza umana? Per tre giorni è mio.” È una forma di violenza simbolica. Elegante, discreta, ben vestita. Ma pur sempre una dichiarazione brutale di supremazia.
E se domani lo facessero tutti? Se ogni super-ricco del pianeta decidesse di celebrare la propria opulenza affittando uno per uno i patrimoni dell’umanità? Cos’è che rimarrebbe da condividere, se anche i simboli dell’universalità diventano location su prenotazione?
Venezia ha un’aura. Una qualità quasi mistica che deriva dalla sua storia, dalla sua fragilità, dal suo essere sospesa tra acqua e cielo. Ma un’aura non si noleggia. Non si impacchetta. E ogni volta che la si privatizza per l’intrattenimento di pochi, la si svuota un po’ di quel significato profondo che la rende patrimonio di tutti. È come vendere pezzi di anima per fare da scenografia a un party.
Forse è tempo di inventare una nuova categoria giuridica: quella dei beni che non si possono comprare. Nemmeno per un giorno. Nemmeno se sei l’uomo più ricco del pianeta. Perché ci sono cose che definiscono chi siamo come specie, e l’idea che possano essere usate come decorazione privata è il segnale di una civiltà che ha smarrito la bussola.
L’Ubuntu africano dice: “io sono perché noi siamo”. Bezos, evidentemente, "è perché lui può" . Ma noi, che rimaniamo fuori dal perimetro di sicurezza, forse dovremmo iniziare a chiederci se questa logica ci sta bene. Perché la vera civiltà non si misura in dollari, ma in ciò che decidiamo di proteggere da chi ha troppi dollari.
La domanda, alla fine, è semplice: vogliamo un mondo dove tutto ha un prezzo, o uno dove certi luoghi restano sacri, intoccabili, nostri? Non è solo una questione di Venezia. È una questione di dignità collettiva. E forse è ora di smettere di fare finta che sia tutto normale.
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