MORS TUA LUCRUM MEUM
Eeeh, che bello il dolore degli altri! Specialmente quando è ben confezionato, servito caldo durante la prima serata con tanto di sigla accattivante e opinionisti pronti a scannarsi sui dettagli più succulenti. Perché diciamocelo, cosa c'è di meglio dopo una giornata di lavoro che rilassarsi sul divano guardando qualcuno che soffre? Meglio ancora se c'è un mistero da risolvere, un colpevole da identificare, una famiglia da compatire. È come un puzzle gigante fatto di lacrime, sangue e audimat.
Prendiamo il povero Alberto Stasi, quello di Garlasco. Un giorno era un ragazzo normale che studiava e stava con la sua fidanzata, il giorno dopo era diventato il "mostro della porta accanto" in tutti i salotti televisivi d'Italia. Che fortuna per i produttori televisivi! Aveva tutto quello che serve per un serial di successo: era giovane, carino, apparentemente normale - il tipo di persona che potresti incontrare al supermercato senza pensarci due volte. E poi c'era lei, Chiara, giovane e bella, la vittima perfetta per scatenare l'indignazione popolare. Un casting che neanche a Hollywood avrebbero saputo fare meglio.
E che dire di Massimo Bossetti? Un operaio qualunque di Mapello che si è ritrovato protagonista del più grande reality show d'Italia senza averlo mai chiesto. "Il Grande Fratello - Edizione Carcere" potremmo chiamarlo. Ogni sua mossa analizzata, ogni sua parola sezionata, ogni sua espressione facciale interpretata da un manipolo di esperti improvvisati. Sua moglie, i suoi figli, tutti trascinati nel teatrino mediatico nazionale. Ma tranquilli, era tutto per il bene della giustizia, ovviamente. Mica per fare ascolti.
E noi? Noi siamo stati dei consumatori esemplari. Abbiamo seguito questi casi con la dedizione di fan accaniti, ci siamo fatti le nostre opinioni basandoci su quello che ci raccontavano in tv, abbiamo formato tifoserie pro e contro come se si trattasse di squadre di calcio. "Io credo alla sua innocenza!" "Ma come fai, è colpevole come la fame!" Discussioni epiche al bar, sui social, in famiglia. Perché quando c'è un bel delitto da commentare, l'Italia si divide sempre in due fazioni. È la nostra specialità nazionale, dopo la pasta e il mandolino.
I talk show hanno fatto a gara per accaparrarsi i casi più succosi. "Stasera da noi: nuove rivelazioni shock sul caso X!" "In esclusiva: parla la vicina di casa che ha sentito tutto!" "Il perito balistico svela i retroscena!" Una gara a chi la sparava più grossa, a chi inventava il colpo di scena più eclatante. E noi lì, incollati al televisore, a leccarci i baffi davanti a tanta abbondanza di dolore servito su un piatto d'argento.
Ma la cosa più divertente è stata vedere gli "esperti" improvvisati moltiplicarsi come funghi dopo la pioggia. Psicologi da salotto che analizzavano la personalità degli indagati basandosi su una foto, criminologi da tastiera che ricostruivano la dinamica dei delitti con la sicurezza di chi c'era presente, avvocati televisivi che sentenziavano colpevolezze e innocenze con una disinvoltura che faceva impallidire la Corte di Cassazione. Tutti laureati all'università della vita, ovviamente, tutti con la verità in tasca.
E i magistrati? Poverini, si sono ritrovati a fare gli attori senza averlo mai studiato. Prima erano oscuri funzionari dello Stato che lavoravano nel silenzio dei loro uffici, poi sono diventati star televisive con tanto di fan club e hater. Ogni loro dichiarazione pesata al milligrammo, ogni loro mossa analizzata dai tuttologi della domenica. "Il PM Tizio ha sbagliato tutto!" "No, è un genio incompreso!" Come se la giustizia fosse diventata uno sport da stadio dove tifare per la propria squadra del cuore.
Ma la vera genialata è stata trasformare le famiglie delle vittime in personaggi fissi del cast. Poveri disgraziati che hanno perso un figlio, una figlia, un fratello, e si sono ritrovati a dover recitare il ruolo della "famiglia composta" davanti alle telecamere. Guai a mostrarsi troppo arrabbiati o troppo vendicativi - il pubblico vuole dignità nel dolore, compostezza nella tragedia. Bisogna soffrire bene, con stile, possibilmente con qualche lacrimuccia al momento giusto ma senza esagerare. Il dolore scomposto non fa audience, disturba lo spettatore che vuole commuoversi ma non troppo.
E che dire della giustizia spettacolo? I processi trasformati in prime time, le aule di tribunale in studi televisivi. "Oggi nell'udienza del caso Y si è verificato un colpo di scena!" "L'avvocato della difesa ha svelato un particolare inedito!" Come se la giustizia fosse una soap opera da seguire puntata dopo puntata, con tanto di anticipazioni per la prossima udienza. "Non perdete il prossimo episodio: testimonierà la suocera!"
Il bello è che ci siamo convinti di essere tutti esperti di criminologia. Dopo anni di gavetta davanti ai programmi di cronaca nera, ci sentiamo qualificati per giudicare prove, analizzare indizi, smascherare bugie. "Io l'ho capito subito che era lui!" "Ma come fai a non vedere che è innocente!" Come se avessimo tutti un sesto senso per la verità giudiziaria sviluppato attraverso ore e ore di televisione commerciale.
E i social network? Ah, quelli sono stati la ciliegina sulla torta! Gruppi Facebook dedicati ai singoli casi, con tanto di teorici del complotto che elaboravano le ipotesi più fantasiose. "E se fosse stato il maggiordomo?" "E se dietro ci fosse una setta satanica?" "E se l'assassino fosse ancora a piede libero?" Un festival della fantasia criminale che avrebbe fatto invidia a Agatha Christie.
La cosa più esilarante è stata vedere come ogni caso diventasse un franchise. Non bastava più il delitto originale, bisognava spremere fino all'ultima goccia di pathos. Speciali televisivi a dieci anni dal fatto, ricostruzioni con attori sempre più somiglianti ai protagonisti reali, documentari che promettevano di svelare "la verità mai detta". Come se la verità fosse un prodotto da consumo con infinite varianti e aggiornamenti.
E gli inquirenti? Poveracci, si sono ritrovati a dover fare i conti con l'aspettativa del pubblico. Non bastava più trovare il colpevole, bisognava trovare il colpevole giusto, quello che il pubblico si aspettava. Guai a deludere l'audience con un finale poco convincente o con un colpevole troppo banale. Il pubblico vuole il mostro, possibilmente con una faccia pulita che nasconde un'anima nera. Se il colpevole è troppo ovvio o troppo ordinario, la storia perde di appeal.
Ma la vera vittoria della spettacolarizzazione è stata trasformare noi tutti in piccoli giudici da salotto. Seduti comodamente sul divano, con il telecomando in mano e la coscienza a posto, ci siamo arrogati il diritto di giudicare vite altrui sulla base di quello che ci raccontavano in televisione. "Io l'avrei condannato!" "Io l'avrei assolto!" Come se la giustizia fosse un sondaggio televisivo dove vince chi prende più voti.
E quando i casi si chiudevano? Ah, quella era sempre la parte più triste. Finita la serie, addio audience. Il pubblico passava al prossimo delitto succulento, i media si fiondavano sulla prossima tragedia da sfruttare. I protagonisti della storia precedente? Dimenticati in un cassetto, insieme ai loro drammi, ai loro dolori, alle loro vite distrutte. Ma tanto, avevamo già la prossima stagione pronta per partire.
Il capolavoro assoluto è stato convincerci che tutto questo fosse normale, giusto, persino necessario. "È il diritto all'informazione!" "È il controllo democratico sulla giustizia!" "È la partecipazione civica!" Bellissimo, davvero. Abbiamo trasformato il voyeurismo in virtù civica, la morbosità in interesse pubblico, lo spettacolo del dolore in servizio sociale. Chapeau.
E così viviamo felici e contenti nella nostra società dello spettacolo permanente, dove ogni tragedia è un'opportunità di intrattenimento, ogni dolore una fonte di audience, ogni processo un reality show. Basta che qualcuno soffra per davvero, che qualcun altro vada in galera, che qualche famiglia si distrugga. L'importante è che noi, dal nostro comodo divano, possiamo continuare a guardare, giudicare, consumare. Perché alla fine, cos'è la vita se non un grande spettacolo dove l'unica cosa che conta è non salire mai sul palco?
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