SPIRALI

Una mattina qualunque, in una scuola come tante, un ragazzo di ventun anni ritorna nel luogo che per lui era stato un inferno silenzioso. Era stato vittima di bullismo, forse per anni, forse ignorato da tutti, e ora torna armato, con in testa un’idea di vendetta che non ha più nulla di razionale. Non cerca i colpevoli, ammesso che li ricordi o che siano ancora lì. Non cerca giustizia. Spara, uccide ragazzi tra i 14 e i 18 anni, innocenti, estranei al suo passato, e poi si toglie la vita. Un gesto estremo, tragico e vigliacco, che lascia dietro di sé solo dolore, domande, e un silenzio ancora più assordante di quello che lo aveva accompagnato per anni.

Ma questa storia, pur nella sua brutalità, non nasce dal nulla. Dietro il gesto di quel ragazzo c’è un groviglio complesso di sofferenze psicologiche, abbandoni, mancanze, silenzi. Parliamo spesso del bullismo come se fosse solo un brutto episodio scolastico, ma non consideriamo mai davvero cosa resta dentro chi lo subisce: la dissociazione, il risentimento che fermenta nel tempo, la depressione che toglie senso e colore alla vita. E poi ci sono i disturbi più gravi, come il borderline di personalità o le psicosi, che possono deformare la percezione della realtà fino a renderla irriconoscibile. Non tutti i ragazzi fragili diventano violenti, certo, ma quando la fragilità è accompagnata da isolamento, mancanza di supporto familiare, assenza di figure adulte capaci di contenere il dolore, allora il rischio di una deriva tragica cresce. È una bomba che nessuno vede, ma che continua a ticchettare sotto la superficie.

Ci si chiede dove fosse la famiglia, se ci fosse, e in che modo avesse provato – o fallito – a sostenerlo. Ci si chiede che scuola fosse quella, se qualcuno avesse mai guardato negli occhi quel ragazzo per davvero. Forse era un tipo solitario, chiuso, uno di quelli su cui si scivola con lo sguardo. Forse aveva parlato, ma nessuno aveva saputo cosa rispondere. E mentre il mondo attorno andava avanti, lui cadeva sempre più dentro se stesso, trovando conforto solo in modelli distorti: film, videogiochi, forum anonimi, contenuti violenti in cui la vendetta diventa riscatto, in cui uccidere è un modo per esistere.

Ed è qui che dobbiamo fermarci a riflettere. Perché nessuna malattia, nessun trauma, giustifica quello che ha fatto. Uccidere degli innocenti è un crimine e un tradimento verso la vita, anche quando la propria è stata piena di dolore. Ma se ci limitiamo a bollare questi fatti come follia improvvisa, se diciamo semplicemente “era un pazzo”, allora ci stiamo lavando le mani. Perché non è impazzito da un giorno all’altro. È crollato dopo anni di sofferenza invisibile, in un contesto che non ha saputo curarlo, né proteggerlo, né dargli un senso di appartenenza.

Questi episodi, purtroppo, non sono rari. E ci dicono che serve un cambiamento culturale urgente. Servono scuole che non siano solo luoghi di nozioni, ma spazi di relazione autentica. Servono famiglie presenti, anche quando è difficile. Servono adulti che sappiano ascoltare, professionisti che sappiano intervenire, educazione emotiva, attenzione vera. Serve dire ai ragazzi che chiedere aiuto non è debolezza, ma coraggio. Serve insegnare a riconoscere il disagio, a parlarne prima che diventi violenza.

Ogni volta che un ragazzo uccide e poi si uccide, è un fallimento collettivo. È la prova che qualcosa non ha funzionato. Non possiamo riportare indietro il tempo, ma possiamo guardarci in faccia e dirci la verità: se vogliamo evitare nuove tragedie, dobbiamo smettere di ignorare i segnali. E dobbiamo farlo ora.


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