UN CAFFÈ SENZA LATTE


L’assenza, che curioso paradosso, non è mai davvero un vuoto, ma una sorta di presenza nascosta, un’ombra che danza silenziosa accanto a ciò che c’è. 

Pensiamo alla vita di ogni giorno: siamo portati a credere che il valore risieda nelle cose che tocchiamo, vediamo, possediamo. Eppure, basta fermarsi un attimo per accorgersi che ciò che manca – una persona, un momento, un’opportunità – ha un peso, una voce, una forza che modella la nostra esperienza tanto quanto ciò che è presente. 

Prendiamo una storiella semplice, di quelle che fanno sorridere ma lasciano un’eco più profonda: un uomo entra in un bar e, con aria decisa, ordina un caffè senza panna. Il barista, con un misto di ironia e praticità, risponde: “Mi dispiace, signore, la panna non ce l’abbiamo, ma posso farle un caffè senza latte.” 

Una battuta, certo, ma che nasconde una verità sottile: un caffè “senza panna” non è solo un caffè normale, è un caffè che si definisce attraverso ciò che non ha, che porta con sé il fantasma di quella panna mai avuta, o di quel latte che avrebbe potuto esserci. 

L’assenza, in questo senso, non è un semplice buco, un niente: è una presenza differita, un segno che trasforma ciò che resta, che dà un gusto diverso, un sapore che non si può ignorare.

Questo gioco dell’assenza si ritrova ovunque, se ci pensiamo. È come se la nostra vita fosse un continuo dialogo tra ciò che c’è e ciò che manca, tra il pieno e il vuoto. Prendiamo l’arte, per esempio, o il cinema, che sanno rendere visibile questo paradosso. 

Penso a quella scena di Nanni Moretti, così umana e ironica, in cui il suo personaggio si chiede: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo proprio?” Qui l’assenza diventa una scelta, quasi una strategia. Non andare a una festa, non esserci, può essere un modo per farsi notare ancora di più, per lasciare un’impronta proprio attraverso il vuoto che si crea. È un gesto che parla, che comunica qualcosa di noi. E non è forse vero che a volte ci ricordiamo di più di chi non c’è, di chi manca, rispetto a chi riempie la stanza con la sua presenza? L’assenza, in questo caso, si fa espressione, diventa una forma di essere, un modo per dire chi siamo senza bisogno di parole o di occupare spazio.

I filosofi, d’altronde, non sono stati da meno nel riflettere su questo tema. Pensiamo a Heidegger, che ci ha insegnato a guardare all’essere non solo come ciò che si manifesta, ma anche come ciò che si ritrae, che si nasconde. O a Derrida, con la sua idea di différance, che ci ricorda come il significato nasca sempre da una differenza, da un intervallo, da ciò che non è pienamente presente. 

L’assenza, in questa prospettiva, non è una negazione, ma un’apertura, uno spazio di possibilità. È come se il senso delle cose si rivelasse proprio nei momenti di sospensione, nei silenzi, nei vuoti che lasciano intravedere qualcosa di più profondo. 

È un po’ come quando ascoltiamo una melodia: non sono solo le note a creare la musica, ma anche le pause, gli intervalli, i silenzi tra una nota e l’altra. Senza quei vuoti, la melodia non avrebbe la stessa forza, lo stesso respiro.

E poi c’è la solitudine, forse il terreno più fertile per capire quanto l’assenza possa essere viva, pulsante, carica di significato. Essere soli non è mai un’esperienza neutra, non è mai la stessa cosa. C’è la solitudine che si sceglie, quella di chi decide di essere un “caffè semplice”, senza aggiunte, senza fronzoli, magari per gusto, per libertà, per bisogno di stare con sé stessi. E poi c’è la solitudine di chi è stato lasciato, di chi vive l’assenza di qualcuno che c’era e ora non c’è più o un amore lontano. 

Questo è il “caffè senza panna” della nostra storiella: un caffè che non è solo caffè, ma un caffè segnato dalla memoria di quella panna che manca, che continua a farsi sentire nel suo non esserci. 

Chi ha perso qualcuno lo sa: l’assenza di una persona amata non è un vuoto sterile, ma un vuoto che respira, che si riempie di ricordi, di desideri, di rimpianti, di speranze. È un’assenza che parla, che si fa sentire in ogni angolo della giornata, che cambia il colore delle cose. E c’è una differenza enorme tra il non aver mai avuto qualcosa e il perderla: il primo è un vuoto che forse non pesa, che non si nota nemmeno; il secondo è un vuoto che ha un nome, un volto, un profumo, e che proprio per questo è così vivo, così presente nella sua mancanza.

Ma non si tratta solo di perdita o di nostalgia. L’assenza, in fondo, è una dimensione che attraversa ogni aspetto della nostra vita, che ci insegna a vedere il mondo in modo più ricco, più sfumato. È come il silenzio in una conversazione: non è solo l’interruzione del discorso, ma il momento in cui le parole non dette, i pensieri sospesi, prendono forma. 

È lo spazio in cui il significato si fa più denso. Pensiamo a un quadro: non è solo ciò che l’artista ha dipinto a catturare il nostro sguardo, ma anche ciò che ha scelto di non dipingere, gli spazi vuoti che danno equilibrio, che fanno respirare l’immagine. O pensiamo a una storia d’amore: a volte è proprio ciò che non si dice, ciò che resta sospeso, a rendere un rapporto così intenso, così vero.

In fondo, imparare a convivere con l’assenza significa imparare a vivere in modo più pieno. Significa riconoscere che la vita non è fatta solo di presenze, di cose tangibili, ma anche di vuoti che hanno un loro peso, una loro bellezza. È come se l’assenza ci spingesse a interrogarci su ciò che davvero conta, su ciò che desideriamo, su ciò che siamo. 

Un caffè senza panna non è solo un caffè: è un caffè che ci ricorda che anche ciò che manca può avere un sapore, può raccontare una storia. E forse è proprio questo il punto: l’assenza non va temuta, non va riempita a tutti i costi, ma abitata, come uno spazio in cui la nostra umanità si fa più visibile, più vera. 

È un invito a guardare oltre ciò che c’è, a trovare senso anche in ciò che non c’è, a scoprire che, in fondo, anche i vuoti possono essere pieni di vita.

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