JE SUIS CHARLIE HEBDO

Immaginate di vivere in un Paese dove basta una vignetta considerata irrispettosa per finire in carcere, dove la satira religiosa è trattata come un crimine e dove la libertà di espressione si ferma davanti ai simboli sacri. Questa è la realtà che vivono ancora oggi alcuni artisti e la popolazione in Turchia, dove la dissacrazione viene considerata un attentato all'ordine morale della nazione, e chi osa mettere in discussione i dogmi religiosi rischia la repressione statale. 
Eppure, guardando alla storia delle idee e delle rivoluzioni spirituali, scopriamo un paradosso inquietante: coloro che oggi vengono venerati come maestri e santi furono spesso, ai loro tempi, considerati dissacratori pericolosi. Quando San Francesco si spogliò davanti al vescovo di Assisi, restituendo al padre ogni bene materiale per abbracciare la povertà assoluta, non stava forse mettendo in discussione l'intera struttura ecclesiastica del suo tempo, fondata sulla ricchezza e sul potere temporale? Il suo gesto era una critica feroce travestita da umiltà, una dissacrazione della Chiesa istituzionale mascherata da devozione. 
Allo stesso modo, quando Gesù cacciò i mercanti dal tempio, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e liberando gli animali destinati ai sacrifici, stava compiendo un atto di profonda sovversione religiosa e sociale, che metteva in discussione non solo le pratiche commerciali legate al culto, ma l'intera economia simbolica del potere sacerdotale. 
E che dire di Socrate, condannato a morte per aver corrotto i giovani con le sue domande insidiose, per aver messo in dubbio le certezze degli ateniesi, per aver dissacrato con la sua ironia le tradizioni e i valori della polis? Al contrario, in Italia – pur tra mille contraddizioni e tensioni culturali – vige una laicità che permette all'arte, alla musica e alla satira di spingersi oltre, anche toccando corde scomode o scandalose, senza che questo si traduca automaticamente in conseguenze penali. 
Questa differenza non è casuale, ma riflette una diversa concezione del rapporto tra potere e verità, tra autorità e conoscenza. Nei regimi teocratici o semi-teocratici, la verità viene percepita come un possesso esclusivo delle istituzioni religiose, come un tesoro da proteggere dagli attacchi esterni piuttosto che come una ricerca comune dell'umanità. In questo contesto, la dissacrazione diventa automaticamente tradimento, eresia, attentato all'ordine cosmico prestabilito. Ma cosa accade quando questa logica viene portata alle sue estreme conseguenze? Accade che la religione si trasforma in ideologia di Stato, che la fede diventa conformismo, che la spiritualità si riduce a disciplina sociale.
La laicità dello Stato serve proprio a garantire uno spazio comune dove le opinioni divergenti possano coesistere, anche quando si esprimono attraverso la dissacrazione, perché riconosce che la verità non è mai definitivamente posseduta da nessuno, ma è sempre in costruzione attraverso il confronto, il dibattito, anche lo scontro delle idee. Non è una questione di volgarità autorizzata, ma di riconoscimento del fatto che in una società pluralista il sacro non può essere imposto a tutti come valore assoluto. 
Qui emerge una distinzione fondamentale: tra il sacro come esperienza interiore e personale, che merita il massimo rispetto, e il sacro come sistema di potere pubblico, che deve invece sottostare alle regole del gioco democratico. Nessuno ha il diritto di impedire a un credente di vivere la propria fede nella dimensione più intima e profonda, ma nessuna fede ha il diritto di imporre i propri codici simbolici a chi non la condivide. Dissacrare, in fondo, non significa necessariamente distruggere: può essere una forma di riflessione critica, un invito al dialogo, un modo per ribaltare le gerarchie e rivelare contraddizioni. L'arte dissacratoria ha spesso funzionato come un laboratorio sociale, come uno spazio di sperimentazione dove era possibile immaginare rapporti di forza diversi, valori alternativi, modalità inedite di organizzare la convivenza umana. Il carnevale medievale, con la sua inversione rituale delle gerarchie, permetteva ai contadini di farsi beffe dei nobili e del clero, creando per qualche giorno un mondo alla rovescia che serviva sia come valvola di sfogo sia come critica implicita dell'ordine costituito. 
La commedia dell'arte italiana, con le sue maschere irriverenti, metteva in scena i vizi e le contraddizioni di una società stratificata, usando il riso come strumento di demistificazione sociale. Il teatro di Molière smascherava l'ipocrisia borghese nascosta dietro la facciata della rispettabilità, mentre quello di Brecht utilizzava la distanziazione dell'assurdo per costringere lo spettatore a riflettere criticamente sulla realtà che dava per scontata. La libertà di coscienza è il fondamento dell'autonomia morale, e senza libertà di parola non esiste progresso autentico. La ricerca della verità è un processo collettivo, che richiede il contributo di menti diverse, di prospettive differenti, di approcci talvolta opposti.
In una società libera, l'offesa si risponde con il dibattito, non con il carcere, perché solo il dibattito permette di distinguere tra offese gratuite e critiche fondate, tra provocazioni sterili e interrogativi fecondi. 
Il dibattito ha una funzione selettiva: le idee false o superficiali vengono gradualmente scartate attraverso la discussione, mentre quelle valide si rafforzano e si affinano. Al contrario, la censura impedisce questo processo di selezione naturale delle idee, proteggendo artificialmente quelle deboli e penalizzando quelle innovative. Quando un regime censura una certa espressione, sta implicitamente ammettendo di non avere argomenti sufficienti per confutarla, di non avere fiducia nella capacità dei cittadini di valutarla autonomamente, di temere che il confronto possa rivelare la fragilità dei propri fondamenti. La censura è sempre un sintomo di insicurezza, mai di forza. 
Certo, ci saranno sempre espressioni che urtano la sensibilità di qualcuno, che provocano dolore, che sembrano attraversare il limite del rispetto dovuto alle persone e alle loro convinzioni più profonde. Ma qui bisogna distinguere tra il rispetto dovuto alle persone, che è un imperativo morale assoluto, e il rispetto dovuto alle idee, che deve sempre essere condizionato alla loro capacità di reggere la prova della critica. Una persona merita rispetto in quanto essere umano, indipendentemente dalle sue opinioni; un'idea merita rispetto solo se riesce a dimostrare la propria validità nel confronto aperto con le alternative. 
Proteggere il diritto di dissacrare è anche proteggere la possibilità per ciascuno di scegliere cosa credere e cosa mettere in discussione, ma è anche qualcosa di più: è proteggere il diritto della verità stessa di emergere attraverso il confronto, anche quando questo confronto è aspro, anche quando è doloroso, anche quando mette in crisi certezze che sembravano incrollabili. 
La storia della scienza è piena di esempi di verità che sono emerse solo attraverso la dissacrazione di dogmi precedenti: Galileo che distruggeva l'immagine geocentrica dell'universo, Darwin che demoliva la concezione fissista delle specie, Freud che smontava l'illusione della trasparenza della coscienza. Ognuna di queste rivoluzioni scientifiche è stata vissuta dai contemporanei come una dissacrazione inaccettabile, come un attentato ai valori fondamentali della civiltà. Eppure, oggi riconosciamo che proprio attraverso queste dissacrazioni l'umanità ha fatto passi decisivi verso una comprensione più profonda di se stessa e del mondo. In fondo, una società che tollera anche l'irriverenza è una società che non ha paura della diversità, che sa che la libertà è più preziosa del decoro e che il rispetto autentico non si impone con la censura, ma si conquista con il confronto. 
Ma è anche una società che ha fiducia nel futuro, che crede nella capacità degli esseri umani di imparare dai propri errori, di crescere attraverso le sfide, di trovare nella diversità una risorsa piuttosto che una minaccia. Al contrario, le società che criminalizzano la dissacrazione sono società che hanno paura del cambiamento, che preferiscono la sicurezza dell'immobilità al rischio della crescita, che scelgono la conservazione del presente piuttosto che l'apertura verso il futuro.
Meglio dunque vivere in uno Stato laico dove puoi anche dissacrare senza rischiare l'arresto, che non in uno dove l'ortodossia religiosa diventa legge e il pensiero critico viene messo a tacere, perché solo in questo spazio di libertà è possibile che emergano quelle verità profonde che nessuna autorità può imporre dall'alto, ma che nascono dal confronto aperto e onesto tra esseri umani che cercano insieme un senso per la propria esistenza. 
La laicità non è indifferenza verso il sacro, ma è la condizione che permette al sacro autentico di distinguersi dalle sue contraffazioni, di purificarsi attraverso la critica, di rinnovarsi attraverso la sfida del dubbio. In questo senso, i veri nemici del sacro non sono i dissacratori, ma coloro che vorrebbero cristallizzarlo in forme immutabili, sottrargli la vitalità del confronto, ridurlo a strumento di controllo sociale. Il sacro autentico non teme la dissacrazione, ma la accoglie come un'occasione di approfondimento, come uno stimolo alla ricerca, come un invito a riscoprire la propria essenza al di là delle forme storiche contingenti che ha assunto nel tempo.

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