LA MAMMA CADAVERE
La storia di Adriana Smith ci mette di fronte a una delle questioni più complesse e laceranti del nostro tempo: cosa significa davvero rispettare la vita? Adriana, cerebralmente morta a soli trent’anni e tenuta in vita artificialmente per portare a termine una gravidanza [nato il 19 giugno per poi staccare definitivamente le macchine da Adriana], diventa simbolo di un conflitto profondo tra legge e coscienza, tra biologia e umanità. In una situazione così estrema, le categorie tradizionali – vita e morte, persona e corpo, diritto e dovere – si sfaldano. Possiamo ancora parlare di individuo quando la coscienza è spenta per sempre, ma il corpo continua a funzionare grazie alle macchine? E possiamo considerare il feto una persona con diritti propri, anche se la donna che lo ospita non è più, tecnicamente, una soggettività attiva? La legge della Georgia, che impone la prosecuzione della gravidanza anche in caso di morte cerebrale, sembra voler difendere la vita a ogni costo, ma finisce per svuotare di senso la libertà e la dignità delle persone. Il diritto, nato per proteggere, qui diventa imposizione; la norma, pensata per garantire giustizia, si trasforma in una gabbia che non lascia spazio alla complessità del vissuto umano. È come se la tecnica avesse superato la nostra capacità di comprenderne le implicazioni morali: possiamo tenere in vita un corpo, ma non sappiamo più cosa significhi farlo. In questa vicenda non c’è spazio per risposte nette o facili. C’è solo la necessità di fermarsi, ascoltare, riflettere. Perché dietro ogni caso come questo c’è una famiglia che soffre, c’è una comunità che si interroga, c’è una società che deve decidere se vuole essere guidata solo da principi astratti o anche da compassione, ascolto, umanità. Forse il vero rispetto per la vita non sta nel prolungarla a ogni costo, ma nel riconoscere quando è giusto lasciarla andare. Forse la vera etica non è quella che impone, ma quella che accompagna. E forse, in un mondo sempre più diviso, l’unico vero atto morale è tornare a vedere, nel volto dell’altro, la nostra stessa fragilità.
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