L'ABORTO? UNA COSA DA UOMINI
Questa fotografia di una riunione tenutasi in Piemonte per discutere della cosiddetta "stanza anti-aborto" nell'ospedale Sant'Anna di Torino rappresenta un paradosso che dovrebbe far riflettere profondamente sulla natura di certe decisioni politiche e sulla rappresentanza di genere nei momenti cruciali. L'assessore regionale Maurizio Marrone ha convocato una riunione per riattivare la stanza contro l'aborto all'ospedale Sant'Anna, dopo che il Tar del Piemonte aveva dichiarato illegittima la convenzione tra la Città della Salute di Torino e l'associazione pro-vita che la gestiva, ma ciò che colpisce di questa immagine non è tanto l'argomento in discussione quanto la composizione demografica di chi è chiamato a decidere. Sette uomini seduti attorno a un tavolo per deliberare su una questione che riguarda esclusivamente i diritti riproduttivi delle donne, in un silenzio assordante che sembra echeggiare attraverso le pareti di quella stanza ministeriale. Non è solo una questione di rappresentanza simbolica, ma di legittimità sostanziale: come può un gruppo di persone che, per natura biologica, non sperimenteranno mai la gravidanza, il travaglio, o la complessità emotiva e fisica di una scelta riproduttiva, arrogarsi il diritto di decidere su questi temi senza nemmeno includere le voci dirette di chi ne è coinvolto? La legge 194 del 1978 è stata una conquista che ha riconosciuto alla donna il diritto di decidere liberamente sulla propria maternità nei primi novanta giorni di gravidazione, con tutte le garanzie e i supporti necessari, e non può essere questo il modo in cui si discute della sua applicazione. L'immagine rimanda a una dinamica di potere arcaica, dove la decisione su temi intimi e personali viene presa da un consesso esclusivamente maschile, come se il corpo femminile fosse ancora considerato un territorio su cui altri possono legiferare senza che le dirette interessate abbiano voce in capitolo. Non si tratta di demonizzare la presenza maschile nelle istituzioni, ma di riconoscere che esistono questioni che richiedono necessariamente la partecipazione e il coinvolgimento di chi ne è direttamente interessato, e l'assenza totale di donne in un tavolo che discute di diritti riproduttivi femminili è una mancanza che va oltre la semplice rappresentanza per toccare la sostanza stessa della democrazia. Questo tipo di composizione delle commissioni e dei tavoli decisionali perpetua una visione paternalistica dei diritti, dove si presume che altri possano decidere meglio di chi vive in prima persona certe esperienze, e crea un precedente preoccupante per il futuro di altre politiche che riguardano la sfera più intima e personale delle donne. L'immagine di questi sette uomini che deliberano sul futuro di una struttura che potrebbe influenzare le scelte riproduttive di migliaia di donne piemontesi senza che nessuna donna sia presente al tavolo racconta meglio di mille parole lo stato di una certa politica e di una certa idea di partecipazione democratica.
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