L'ORCHESTRINA DEL TITANIC



Il negazionismo climatico non è più solo una posizione, è diventato uno stato mentale, una postura esistenziale, una forma di resistenza pseudo-intellettuale all'inevitabile. Non è tanto ignoranza, quanto rifiuto strutturato, quasi ideologico, un'adesione convinta a una realtà alternativa costruita per rassicurare, per non cambiare, per restare fermi mentre tutto si muove. È la scelta consapevole di chi preferisce il conforto della semplificazione alla fatica della complessità, un atto politico travestito da buonsenso, dove il rifiuto della scienza diventa paradossalmente una bandiera di libertà individuale, e il disprezzo per la transizione ecologica si traveste da difesa dei più deboli, come se continuare a bruciare carbone fosse un atto rivoluzionario in difesa del popolo. 

In realtà è l'ennesima pantomima ideologica al servizio dello status quo, una forma sofisticata di conservatorismo travestito da spirito critico, che si aggrappa disperatamente a modelli economici obsoleti e a strutture di potere fossilizzate. Si sbandierano citazioni tratte da blog sconosciuti, si diffida della comunità scientifica ma si abbracciano teorie economiche smentite dai fatti, si invoca il fallimento del Green Deal mentre si ignora volutamente la traiettoria globale dell'innovazione, come se l'Europa potesse prosperare in eterno vendendo SUV a gasolio e importando gas da regimi autoritari. 

È una forma di autolesionismo sistemico, che difende con fervore religioso le stesse dipendenze energetiche che ci hanno resi vulnerabili, come se l'indipendenza e la sovranità fossero concetti negoziabili purché non ci si debba mettere un pannello solare sul tetto. Economicamente, è una cecità disarmante: ignorare che chi oggi guida la transizione ecologica domani controllerà i brevetti, i mercati, le risorse e le filiere significa decidere scientemente di restare una colonia tecnologica dei Paesi che invece hanno scelto di evolversi. 

Ma soprattutto è una resa culturale: la rinuncia ad assumere un ruolo nel mondo che cambia, la negazione della possibilità di essere protagonisti, l'accettazione rassegnata di essere spettatori passivi di una trasformazione globale. È un atto di violenza simbolica: perché saranno proprio i più vulnerabili a pagare il prezzo dell'inazione, saranno le periferie, le campagne, le generazioni più giovani a subire i danni del disastro climatico mentre i difensori del "buon senso" continueranno a parlare di complotti e di fotovoltaico che "non funziona quando piove" o "cosa serve farlo noi se nel resto del mondo non inquinano meno?" – che poi è come non lavarsi i denti perché il vicino ha l'alitosi.

È l'abdicazione al pensiero lungo, il rifiuto del progetto, della pianificazione, della responsabilità collettiva, è l'elogio dell'inerzia spacciata per prudenza. È un disperato tentativo di negare l'impermanenza, un rifiuto della transitorietà, un attaccamento morboso a un'idea di mondo che non c'è più, come se la modernità fosse una parentesi da cancellare. In fondo, il negazionismo climatico è una battaglia contro il tempo, contro il futuro, contro l'idea stessa di cambiamento: è l'illusione di poter vivere all'infinito dentro un passato che sta crollando sotto il peso della sua insostenibilità. 

Ma il tempo, si sa, è un avversario implacabile, e non c'è retorica che possa fermarlo. Come l'orchestra del Titanic che continuava a suonare mentre la nave affondava, il negazionismo climatico è l'arte di mantenere la normalità mentre tutto crolla intorno, preferendo la melodia familiare al grido d'allarme. È la scelta di concentrarsi sulla perfezione dell'esecuzione musicale mentre l'acqua sale, di discutere di crescita economica mentre i ghiacci si sciolgono, di difendere le tradizioni industriali mentre il pianeta brucia. Il tempo prima o poi arriva e ci trova inermi e impotenti, ancora intenti a suonare le stesse note di sempre, convinti che la musica possa fermare l'inevitabile, che la bellezza del passato possa bastare a salvare il futuro.

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