MARCELLO VENEZIANI? UN COMUNISTA
La piccola polemica sorta attorno alla mancata partecipazione del Ministro della Cultura Alessandro Giuli al Premio Strega 2025 rivela, dietro la sua apparente marginalità, alcune delle contraddizioni più profonde del nostro tempo culturale e politico. La vicenda assume contorni ancora più grotteschi quando si scopre che Giuli si era dimesso dalla giuria del premio il giorno stesso della sua nomina a ministro, per poi lamentarsi pubblicamente di non aver ricevuto i libri finalisti. Come ha chiarito la Fondazione Bellonci, i volumi vengono inviati esclusivamente ai giurati effettivi. La risposta della Fondazione è stata lapidaria: "Non gli abbiamo inviato i libri del premio perché chiediamo agli editori di spedirli unicamente alla giuria dello Strega, da cui si è dimesso il giorno stesso della sua nomina al ministero della Cultura". Quello che doveva essere un caso di presunta esclusione culturale si trasforma così in una figura miserrima, dove il ministro finisce per protestare per non aver ricevuto privilegi a cui aveva formalmente rinunciato. Quando Giuli dichiara ironicamente di essere passato da "Amico della Domenica" a "nemico della Domenica", non sta semplicemente lamentando una mancanza di cortesia istituzionale, ma rivela involontariamente un meccanismo più sottile e pervasivo che governa i rapporti tra potere politico e mondo culturale, nonché una certa confusione sui propri ruoli e responsabilità. La questione dei libri non inviati diventa così il pretesto per una riflessione più ampia sui rituali di inclusione ed esclusione che caratterizzano le élite culturali, quei codici non scritti che determinano chi appartiene al circolo dei legittimati a esprimere giudizi estetici e chi invece ne rimane fuori. Alessandro Sallusti, accogliendo con entusiasmo la decisione di Giuli, parla di "regno della cultura che disprezza gli intellettuali non asserviti al pensiero unico", utilizzando una retorica che trasforma immediatamente l'episodio in battaglia ideologica. Al contempo, questa posizione rivela una verità scomoda: l'esistenza di meccanismi di auto-selezione culturale che tendono a perpetuare determinate visioni del mondo. Il paradosso emerge però quando si prova a individuare questi presunti intellettuali di destra sistematicamente esclusi dal dibattito culturale mainstream. I nomi che vengono citati - Veneziani, Guerri, Galli della Loggia - sono figure che, pur collocandosi nell'area conservatrice, utilizzano un linguaggio e un approccio metodologico che li rende sostanzialmente indistinguibili, sul piano della forma e spesso anche del contenuto, dai loro colleghi di diverso orientamento politico. Veneziani scrive di tradizione e modernità con la stessa complessità argomentativa di un intellettuale di sinistra, Guerri affronta la storia del Novecento con il rigore accademico che caratterizza qualsiasi storico serio, indipendentemente dalle sue simpatie politiche. La loro "destra" è una destra colta, sfumata, problematica, che poco ha a che fare con la semplificazione ideologica che caratterizza invece la comunicazione politica di massa della destra stessa. Paradossalmente, questa stessa comunicazione li taccerebbe di essere di sinistra perché non usa le medesime argomentazioni, se li leggessero non vi si riconoscerebbero, addirittura non li capirebbero. Non sentiremo mai Veneziani, Pera, Galli della Loggia parlare ossessionati di "negri" o "culattoni", come un Vannacci o un Cruciani qualunque - unico modo per essere considerati "di destra" dall'elettorato medio di destra. È come se esistessero due livelli completamente separati del discorso conservatore: quello intellettuale, caratterizzato da raffinatezza e complessità, e quello politico-mediatico, caratterizzato da immediatezza e polarizzazione. Questa frattura rivela qualcosa di profondo sulla natura stessa della cultura contemporanea e sui suoi rapporti con la politica. Da un lato, il mondo culturale mantiene ancora, almeno formalmente, quella pretesa di autonomia e di complessità che lo caratterizza dalla modernità in poi, quella vocazione alla sfumatura e al dubbio che rende difficile qualsiasi riduzione ideologica immediata. Dall'altro, la politica contemporanea sembra richiedere invece una semplificazione costante, una riduzione della complessità a slogan facilmente riconoscibili e consumabili dal pubblico di massa. Il risultato è che gli intellettuali "di destra" finiscono per essere doppiamente estranei: troppo complessi per essere riconosciuti e "citati" come tali dal pubblico politicizzato che dovrebbe costituire il loro riferimento naturale, troppo marcati ideologicamente per essere pienamente accettati dal mondo culturale che continua a coltivare, almeno retoricamente, il mito della neutralità critica. Il caso Strega diventa così emblematico non solo di una più generale crisi della mediazione culturale nella società contemporanea, ma anche della tendenza contemporanea a trasformare ogni gaffe in battaglia ideologica. La vicenda di Giuli è esemplare: da un lato abbiamo un ministro che commette un errore procedurale elementare dimettendosi da una giuria per poi protestare di non riceverne più i benefici, dall'altro abbiamo un apparato mediatico che trasforma immediatamente questo episodio grottesco in prova di una discriminazione sistematica. Il premio letterario, con i suoi rituali codificati e le sue gerarchie implicite, rappresenta certamente uno di quegli spazi in cui si definisce simbolicamente cosa conta come cultura legittima e chi ha il diritto di esprimere giudizi estetici. In questo caso specifico, però, la "esclusione" di Giuli non rivela tanto i meccanismi di funzionamento di queste istituzioni culturali quanto piuttosto l'incapacità di distinguere tra discriminazione reale e conseguenze logiche delle proprie scelte. La cultura, infatti, non è mai neutrale, ma è sempre attraversata da rapporti di potere che determinano cosa viene riconosciuto come degno di attenzione e cosa invece viene marginalizzato. Il problema è che questi rapporti di potere tendono a nascondersi dietro la retorica della qualità estetica e del merito intellettuale, rendendo più difficile il loro riconoscimento e la loro critica. La reazione di Sallusti e dei media di destra, con la denuncia del "feudo di sinistra" e dell'esclusione sistematica delle voci non conformi, coglie certamente un aspetto reale di questi meccanismi, ma lo fa attraverso una semplificazione che rischia di essere altrettanto distorcente, e soprattutto poggia su una premessa fattualmente errata. Il caso Giuli dimostra infatti come spesso le polemiche sulla presunta discriminazione culturale nascano da situazioni ben più prosaiche e imbarazzanti: un ministro che si dimette da una giuria per poi lamentarsi di non ricevere più i privilegi connessi a quel ruolo rappresenta un esempio perfetto di come la vittimizzazione ideologica possa servire a nascondere semplici errori di valutazione o lacune procedurali. L'idea che esista un complotto culturale di sinistra organizzato per escludere le voci dissidenti trasforma quella che dovrebbe essere una riflessione critica sui meccanismi di funzionamento del campo culturale in una battaglia ideologica che riproduce, specularmente, gli stessi vizi che denuncia. La cultura viene così ridotta a strumento di battaglia politica, perdendo quella dimensione di complessità e di problematicità che dovrebbe invece essere il suo tratto distintivo. Ma forse il vero problema sta proprio in questa impossibilità di pensare la cultura al di fuori delle logiche dell'appartenenza politica. Quando ogni libro, ogni premio, ogni presenza o assenza diventa immediatamente significativa dal punto di vista ideologico, si perde la possibilità di mantenere quello spazio di autonomia critica che dovrebbe essere il vero patrimonio della cultura. L'intellettuale diventa così inevitabilmente organico, per usare la terminologia gramsciana, ma organico non più a un progetto di trasformazione sociale, quanto piuttosto a una logica di schieramento che finisce per impoverire il discorso culturale riducendolo a conferma delle proprie appartenenze precostituite. Il risultato è paradossale: proprio nel momento in cui si denuncia l'ideologizzazione della cultura, si finisce per contribuire a essa, riproducendo quelle stesse logiche di esclusione che si pretende di combattere. La vera sfida, allora, sarebbe quella di riuscire a pensare la cultura come spazio di elaborazione critica della realtà, capace di sottrarsi tanto alle logiche dell'esclusione quanto a quelle della semplificazione ideologica. Ma questo richiederebbe un cambiamento profondo non solo nelle istituzioni culturali, ma anche nel modo in cui la politica e i media si rapportano alla cultura, riconoscendo la sua specificità e la sua autonomia invece di ridurla a strumento di legittimazione o di battaglia. Il caso Strega, nella sua apparente marginalità, ci ricorda che la cultura è sempre stata un campo di tensioni e conflitti, ma che proprio per questo dovrebbe mantenere quella capacità di problematizzazione e di critica che la rende irriducibile a qualsiasi semplificazione ideologica.
Commenti
Posta un commento