NON DISTURBARE IL MANOVRATORE


Il silenzio delle istituzioni italiane sul trattamento riservato a Francesca Albanese non è semplicemente vergognoso. È un capolavoro di viltà diplomatica, una coreografia dell'omertà istituzionalizzata che meriterebbe l'Oscar per la miglior interpretazione non protagonista in un teatro dell'assurdo. Mentre lei – unica voce italiana con una spina dorsale nei corridoi delle Nazioni Unite – osa dire l'ovvio con precisione chirurgica, i nostri rappresentanti si rifugiano dietro il paravento dell'irrilevanza, trasformando la diplomazia in un'arte dell'invisibilità che farebbe invidia a Houdini.

Israele e Stati Uniti le sbattono la porta in faccia? E noi, invece di spalancarle un portone, ci fingiamo ciechi, sordi e – ça va sans dire – muti come pesci in un acquario di Stato. Ma attenzione: se qualcuno mette in dubbio il maquillage istituzionale della premier con un tweet, ecco che tutto l'apparato si trasforma in un plotone d'esecuzione digitale pronto a sparare a salve mediatiche. Francesca può essere denigrata, sabotata professionalmente, ignorata sistematicamente come un fantasma scomodo che si aggira nei palazzi del potere. E dal Quirinale? Silenzio glaciale che farebbe concorrenza all'Antartide. Palazzo Chigi? Occupato a distribuire bandierine e patriottismi prefabbricati come caramelle avvelenate in una sagra della retorica.

Questo non è silenzio: è complicità in alta definizione, girata con la regia di chi ha fatto dell'ipocrisia un genere cinematografico. È l'abdicazione consapevole di ogni principio democratico, travestito da neutralità diplomatica con la stessa eleganza di un elefante in tutù. L'Italia, patria di Dante e Beccaria, si comporta come una comparsa muta in un film di serie B, dove il copione è scritto altrove e noi ci limitiamo a fare scenografia.

E i giornali, quei tamburi del potere che si vantano di libertà di stampa mentre inseguono le sciocchezze dei reality show con la dedizione di segugi da tartufo, non dedicano neppure una riga alla questione. Perché Francesca non vende pubblicità. Non genera click. Non si piega ai diktat del mercato dell'indignazione selettiva. È colpevole del crimine più imperdonabile nell'epoca della post-verità: dire la verità senza pagare il biglietto d'ingresso al circo mediatico.

Chi parla di diritti umani viene trattato come un guasto da riparare in fretta, preferibilmente rimuovendolo con la delicatezza di un'operazione chirurgica fatta con una ruspa. La politica italiana non difende i suoi cittadini: li filtra con la meticolosità di un setaccio burocratico. Se non disturbano, bene. Se osano pensare, parlare, agire – meglio lasciarli soli nel deserto dell'indifferenza istituzionale, dove possono abbaiare alla luna senza disturbare il sonno dei potenti.

Albanese diventa un bersaglio perché esercita l'unico vero dovere di chi ha accesso alla verità: raccontarla, anche quando fa male, anche quando sveglia i dormienti, anche quando mette in discussione le comode certezze di chi preferisce vivere nell'illusione che il re sia vestito. È la bambina della favola di Andersen, ma in versione adulta, laureata, e con un mandato delle Nazioni Unite che la rende particolarmente fastidiosa per chi vorrebbe che la realtà si adeguasse alle convenienze diplomatiche.

E noi? Noi facciamo scroll down con la disinvoltura di chi ha trasformato l'apatia in una forma d'arte. Tiriamo a campare nel quieto disonore, cullati dalla confortevole mediocrità di chi ha imparato che è meglio non vedere, non sentire, non parlare. Francesca resiste, mentre il sistema confeziona un silenzio che non è distrazione, è strategia. Il potere non censura più – troppo volgare, troppo evidente. Disintegra per selezione, con l'eleganza di chi ha imparato che l'oblio è più efficace della repressione. Decide chi merita esistere nell'ecosistema mediatico, chi può occupare spazio nel dibattito pubblico, chi ha diritto di cittadinanza nell'agorà digitale.

E Francesca, a quanto pare, ha commesso l'errore imperdonabile di scegliere di esistere troppo, di parlare troppo forte, di essere troppo scomoda per un Paese che ha fatto della mediocrità un programma di governo e dell'invisibilità internazionale una strategia di sopravvivenza. In un'Italia che ha barattato la dignità con la tranquillità, la voce di Albanese risuona come un allarme antincendio in un palazzo che preferisce bruciare in silenzio.

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