OCCHIO CHE VEDE, CUORE NON DUOLE


Il dibattito sul riconoscimento ufficiale del culto islamico in Italia è uno di quei classici esercizi di ipocrisia nazionale in cui si finge di parlare di principi, ma si agisce per calcolo elettorale e ignoranza strategica. Appena si nomina l’Islam, il dibattito pubblico si divide tra chi blatera di libertà religiosa senza sapere di cosa parla e chi grida al pericolo invasione come se fosse ancora in piedi l’Impero Ottomano. Nel mezzo, il nulla cosmico: nessuna analisi seria, nessuna visione strategica, solo il solito teatrino di slogan, pregiudizi e panico moralista.

Nessuno sembra voler ammettere l’ovvio: in Italia vivono ormai stabilmente quasi due milioni di musulmani. Non si tratta di un’invasione, né di un’emergenza: è un dato di realtà. E, come ogni comunità religiosa strutturata, hanno bisogni concreti, servizi da garantire, spazi di culto e momenti identitari da vivere. Ma il nostro sistema istituzionale fa finta che non esistano. Si preferisce lasciare tutto in un limbo normativo, per poi lamentarsi quando qualcosa sfugge di mano. Geniale.

La costruzione delle moschee, per esempio, è il campo di battaglia preferito da sindaci in cerca di notorietà e partiti a corto di idee. Ogni volta che una comunità musulmana prova ad aprire un luogo di culto degno di questo nome – e non un sottoscala fatiscente – scatta l’allarme sociale: raccolte firme, comitati spontanei, mozioni in consiglio comunale, addirittura spargimento di sangue di maiale [sic!]. Peccato che nessuno protesti quando aprono l’ennesimo bingo. Ma evidentemente, il vero problema sono i minareti, non la ludopatia con tutti i connessi.

Eppure, costruire moschee regolari, visibili, trasparenti, è la condizione minima per qualsiasi forma di controllo istituzionale [Forze dell'ordine]. Pensateci, in una moschea pubblica chiunque può frequentarla in "anonimato", come nelle chiese. Si può ascoltare la predica, fare domande, chiedere cosa si dice o cosa si fa. Ma noi no: preferiamo tenerci i centri improvvisati nei garage, senza tracciabilità né standard, dove si può covare un "giustificato" odio visto il trattamento della società. Così quando scoppia il caso mediatico, tutti possono fingere sorpresa e indignazione. Lo stesso vale per i servizi religiosi connessi: si parla di mense scolastiche che non prevedono opzioni halal per i bambini musulmani [ma guai a toccare il menù vegetariano o vegano: quelli sì che sono diritti civili], di funerali islamici che devono essere improvvisati, di certificazioni religiose per i matrimoni o per i prodotti alimentari lasciate in mano a chi capita, senza alcun controllo pubblico.

Nel frattempo, lo Stato osserva, inerte, mentre si sviluppa un mercato parallelo. Perché se non si regolamenta, si apre la porta all’improvvisazione. Se non si riconosce ufficialmente, si alimenta l’illegalità. Se non si costruisce un dialogo, si lasciano le comunità in balia di predicatori autodidatti e interessi stranieri. Ma questo non lo dicono nei talk show, troppo impegnati a dibattere se il velo sia o no “un simbolo di sottomissione”.

Il paradosso più grottesco resta quello economico: lo Stato italiano si rifiuta di dare un quadro normativo all’Islam, ma poi si scandalizza se le moschee ricevono fondi da paesi stranieri con agende geopolitiche non proprio allineate ai nostri valori. E come dovrebbero finanziare i loro luoghi di culto e servizi sociali, secondo voi? Con le monetine delle offerte? Magari con qualche bando europeo per “l’inclusione soft”? Senza riconoscimento, non esistono regole, e senza regole non si può né controllare né prevenire. Ma guai a proporre una soluzione razionale: qualcuno potrebbe accusarti di buonismo. O peggio ancora, di pensare.

Anche la formazione degli Imam segue la stessa logica disfunzionale. Senza un quadro riconosciuto, gli imam continuano ad arrivare dall’estero, formati in contesti che con l’Italia non hanno nulla a che fare, che parlano poco l’italiano e che spesso non sanno come muoversi in una società pluralista e laica. È davvero questo il tipo di leadership religiosa che vogliamo per le nostre comunità musulmane? Davvero pensiamo che lasciare questo ruolo a figure non formate, magari con visioni arcaiche e separate dalla realtà italiana, sia meno pericoloso di formare in casa un clero competente, bilingue, con conoscenze teologiche e civiche, magari coinvolgendo le Università?

Ma in Italia l’idea di riconoscere ufficialmente il culto islamico spaventa, perché significherebbe ammettere che l’Islam non è un corpo estraneo, ma parte integrante della nostra società. E questo manda in cortocircuito l’intera narrativa del “prima gli italiani”, si perdono consensi disinformati e d'odio. Perché se i musulmani diventano cittadini a pieno titolo, allora bisogna cominciare a fare i conti con la realtà. E si sa: noi italiani siamo bravissimi a gestire l’emergenza, ma totalmente incapaci di pensare a lungo termine.

Il riconoscimento dell’Islam in Italia non è una concessione, non è una “gentilezza” verso una minoranza. È un atto di maturità democratica, un passo logico per garantire sicurezza, trasparenza e coesione sociale. Permetterebbe di mappare i luoghi di culto, regolare la formazione del clero, controllare i finanziamenti, costruire luoghi adeguati e dignitosi, offrire servizi compatibili con i diritti religiosi dei cittadini musulmani: dai menu scolastici alla sepoltura. In poche parole, smetterla di trattare una fetta consistente della popolazione come ospiti scomodi e iniziare a considerarli parte del futuro del Paese.

Ma finché si continuerà a giocare al “non vedo, non sento, non regolo”, l’Italia resterà inchiodata a una gestione emergenziale che fa comodo solo a chi vive di paura e retorica. La storia non aspetta, e l’Islam in Italia è già realtà. Far finta che non esista, o peggio, lasciarlo senza regole, non è solo un errore: è un suicidio istituzionale. E come al solito, ci sveglieremo tardi. Quando il danno sarà fatto, e i soliti noti diranno che “nessuno poteva immaginarlo”.

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