ODIO VELATO
Silvia Sardone. Eurodeputata leghista, donna delle istituzioni, ambasciatrice del garbo. Silvia Sardone, quella finezza intellettuale che definisce il velo islamico "un sacco della spazzatura" - perché evidentemente al Parlamento Europeo mancavano proprio le metafore da cortile di periferia e il livello del dibattito politico andava urgentemente abbassato sotto il livello del mare. Ma rendiamole merito: in una sola frase è riuscita a condensare secoli di ignoranza, bigotteria e maleducazione istituzionale, dimostrando che per fare politica basta avere la sensibilità di un bulldozer e la cultura di un grissino. Immaginiamoci per un momento lo scenario inverso: un parlamentare musulmano che definisce il crocefisso cristiano "un cadavere appeso al collo" - oh, che scandalo sarebbe, che pioggia di comunicati indignati, che coro di voci offese per la mancanza di rispetto verso i simboli religiosi! Ma quando l'insulto viaggia nella direzione opposta, quando colpisce chi non ha la forza politica per rispondere a tono, allora diventa improvvisamente accettabile, anzi, applaudibile da chi confonde la propaganda con la politica e l'insulto con l'argomentazione.
Il velo islamico, per chi avesse la curiosità di informarsi prima di aprire bocca - concetto evidentemente rivoluzionario in certi ambienti - è un universo di significati che spazia dalla spiritualità più profonda alle tradizioni culturali millenarie, dalle interpretazioni teologiche complesse alle scelte personali consapevoli, ma tutto questo richiede uno sforzo intellettuale che evidentemente è troppo faticoso per chi preferisce la comodità del pregiudizio prêt-à-porter. Curiosamente, le stesse persone che si commuovono davanti al velo delle suore, anche per quelle laiche, - simbolo di devozione, purezza spirituale, sacrificio per il divino - perdono improvvisamente ogni capacità di comprensione quando si tratta del velo islamico, come se la spiritualità femminile fosse un privilegio esclusivo del cristianesimo e come se l'hijab non potesse mai essere espressione della stessa ricerca di sacro che ammiriamo in Santa Teresa d'Avila o in Madre Teresa di Calcutta. Ma evidentemente il rapporto con Dio ha un colore di pelle e una nazionalità precisa, almeno secondo la geografia teologica della Sardone. Dal Marocco all'Indonesia, dalla Turchia al Senegal, il velo si declina in forme, significati e pratiche così diverse che solo un'ignoranza sopraffina può ridurle a un "sacco della spazzatura" - ma d'altronde, perché perdere tempo a studiare quando si può benissimo governare a base di slogan e luoghi comuni, soprattutto se si ha la fortuna di avere a che fare con un elettorato come il suo? La ricchezza antropologica dell'Islam, con le sue molteplici correnti di pensiero e le sue diverse scuole giuridiche, viene spazzata via con la stessa eleganza con cui si butta la mondezza, e pazienza se così facendo si calpesta la dignità di milioni di donne che hanno scelto consapevolmente di indossare il velo come espressione della propria fede, della propria identità, del proprio rapporto con il divino.
Perché questo è il punto che sfugge ai nostri raffinati rappresentanti istituzionali: in paesi come la Turchia, il Marocco, la Tunisia, l'Egitto, la Giordania, l'Indonesia - insomma, in buona parte del mondo musulmano - nessuno obbliga legalmente le donne a indossare il velo, e molte di loro lo scelgono liberamente, ma questa realtà disturba la narrazione semplicistica che vuole tutte le musulmane oppresse e sottomesse, private di agency e di capacità di autodeterminazione. Molto più comodo dipingerle come vittime passive di un sistema patriarcale, così si può fare la figura dei paladini della libertà femminile senza dover riconoscere che forse, proprio forse, alcune donne potrebbero avere idee diverse da quelle che piacciono a noi sui temi della fede, della modestia, del rapporto con il sacro. Ma riconoscere questo significherebbe ammettere che la diversità religiosa e culturale è una ricchezza, non una minaccia, e che le donne musulmane sono soggetti pensanti, non oggetti da salvare o da insultare a seconda della convenienza politica.
La filosofia della libertà, quella vera, non quella da bar dello sport che va tanto di moda, dovrebbe insegnare che rispettare le scelte altrui è il fondamento della convivenza civile, ma evidentemente questo principio vale solo quando le scelte ci piacciono e corrispondono ai nostri parametri di normalità. Se una donna sceglie di indossare il velo per motivi religiosi, spirituali o culturali, la sua libertà viene improvvisamente messa in discussione, mentre se sceglie di indossare una minigonna o di farsi una chirurgia estetica, allora è libera autodeterminazione - la coerenza, questa sconosciuta. Il paradosso raggiunge vette alpine quando consideriamo che nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione la libera scelta di una donna di prendere i voti e di indossare abiti e simboli religiosi, anzi, viene universalmente rispettata come vocazione spirituale autentica ["autentica"... molte "vocazioni" sono spinte dalle famiglie, dalla necessità di avere un futuro per sottrarsi a una realtà miserrima] ma se la stessa donna sceglie l'hijab per gli stessi identici motivi di devozione e ricerca del sacro, allora improvvisamente diventa una vittima del patriarcato da liberare a forza. Evidentemente la spiritualità femminile è accettabile solo se si esprime nelle forme approvate dal canone occidentale, mentre quella che si manifesta attraverso simboli "alieni" va automaticamente considerata sospetta e inautentica.
Dal punto di vista politico, la strumentalizzazione del velo islamico è un capolavoro di demagogia populista: si prende un simbolo religioso, lo si carica di significati minacciosi e lo si agita come uno spauracchio per raccogliere consensi facili tra chi ha paura del diverso e del cambiamento. Ogni donna velata diventa automaticamente una potenziale terrorista, una quinta colonna dell'islamizzazione dell'Europa, un pericolo per la sicurezza nazionale - tutto questo senza uno straccio di evidenza empirica, ma con grande efficacia propagandistica. La Sardone e i suoi colleghi hanno capito benissimo che l'islamofobia paga elettoralmente, che l'insulto gratuito verso le minoranze religiose trova sempre un pubblico disposto ad applaudire, che la violenza verbale può essere spacciata per coraggio politico e sincerità democratica.
Socialmente, queste dichiarazioni contribuiscono a creare un clima di ostilità e discriminazione che rende la vita quotidiana delle donne musulmane un percorso a ostacoli, dove ogni uscita di casa diventa un atto di coraggio e ogni sguardo può nascondere disprezzo o sospetto. Ma questo, evidentemente, non è un problema per chi vede nelle istituzioni democratiche non uno strumento di inclusione e dialogo, ma un palcoscenico per le proprie performance di intolleranza. Il bello è che poi gli stessi personaggi si stupiscono se la società si polarizza, se i rapporti tra comunità si incrinano, se cresce la sfiducia verso le istituzioni - come se le loro parole fossero neutrali e non avessero conseguenze concrete sulla vita delle persone.
La questione dell'obbligo è particolarmente gustosa nella sua strumentalizzazione: sì, è vero che in Iran o nell'Afghanistan dei Taliban il velo è imposto per legge con punizioni severe, ma da questo dedurre che tutte le donne musulmane del mondo sono costrette a indossarlo è un salto logico che richiederebbe una medaglia d'oro per le olimpiadi dell'ignoranza. È come dire che tutti i cristiani sono obbligati a portare il crocefisso perché in alcuni paesi è esposto obbligatoriamente nelle aule scolastiche - ma evidentemente la capacità di distinguere tra contesti diversi e di evitare generalizzazioni grossolane è una competenza troppo avanzata per certi livelli di dibattito politico.
La violenza simbolica delle parole della Sardone non è un incidente di percorso, ma una strategia deliberata che trasforma la diversità religiosa in un problema di sicurezza, la libertà di culto in una minaccia per i valori occidentali, il rispetto per l'altro in debolezza democratica. Quando un rappresentante delle istituzioni utilizza un linguaggio così aggressivo e deumanizzante, sta legittimando forme di discriminazione che si traducono in difficoltà concrete per trovare lavoro, per frequentare la scuola, per vivere serenamente la propria vita quotidiana. Ma questo, evidentemente, è un prezzo che si può pagare pur di raccogliere qualche voto in più e di apparire sui giornali come paladini della lotta all'islamizzazione.
Il capolavoro finale è che tutto questo viene fatto in nome della libertà e dei diritti delle donne, come se le donne musulmane fossero troppo stupide per sapere cosa è meglio per loro e avessero bisogno di essere salvate dalla Sardone e dai suoi compagni di merenda. La condiscendenza paternalistica si mescola al razzismo culturale in un cocktail esplosivo che nega alle donne musulmane ogni forma di soggettività e le riduce a vittime passive di un sistema che va combattuto a colpi di insulti e di divieti. Che poi, se davvero si volesse aiutare le donne oppresse, forse si potrebbe iniziare con il non insultarle pubblicamente e con il riconoscere la loro capacità di scegliere, ma evidentemente questa sarebbe una strategia troppo complessa per menti abituate alla semplicità dello slogan e alla brutalità dell'invettiva. Il double standard è talmente evidente da risultare quasi comico: mentre una suora che dedica la sua vita a Dio vestendo l'abito religioso viene vista come un esempio di virtù e dedicazione spirituale, una donna musulmana che fa la stessa scelta ma con simboli diversi viene automaticamente etichettata come oppressa o, peggio ancora, come "sacco della spazzatura" - perché evidentemente il rapporto con il divino ha bisogno del marchio di qualità occidentale per essere considerato autentico e rispettabile.
Il risultato è una società più divisa, più rancorosa, più incapace di dialogo e di comprensione reciproca, dove la politica diventa una rissa permanente e le istituzioni democratiche si trasformano in arene per gladiatori dell'intolleranza. Ma tutto questo, evidentemente, è accettabile per chi confonde la democrazia con la demagogia e il servizio pubblico con la propaganda privata, per chi pensa che governare significhi dividere e che rappresentare i cittadini voglia dire insultare quelli che non ci piacciono.
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