RED SHIFT
La storia del terrorismo politico in Italia ci racconta di due universi simbolici e operativi profondamente diversi, quasi antitetici nella loro concezione della violenza come strumento di trasformazione sociale. Quando parliamo delle Brigate Rosse, ci muoviamo in un territorio dove la violenza aveva una sua logica interna, una sua grammatica che si rifaceva a categorie marxiste-leniniste ben precise: il nemico era identificabile, aveva un nome, un volto, una funzione sociale specifica. Moro, Tarantelli, D'Urso non erano vittime casuali ma rappresentanti di un sistema che doveva essere colpito nei suoi gangli vitali, nelle sue articolazioni di potere. E in questa logica rientravano anche esponenti del PCI e della CGIL, colpiti non malgrado la loro appartenenza alla sinistra ma proprio a causa di essa: erano visti come traditori della classe operaia, come complici di un sistema che perpetuava lo sfruttamento attraverso la mediazione sindacale e politica, come ostacoli sulla strada della rivoluzione autentica. C'era una dimensione quasi teatrale in questa violenza, una messa in scena del conflitto di classe che si nutriva di una filosofia della storia deterministica, dove ogni azione aveva un significato preciso nell'economia generale della lotta rivoluzionaria. Il terrorismo rosso si muoveva dentro una cornice ideologica che, per quanto aberrante nei suoi esiti, manteneva una sua coerenza interna: la violenza era pedagogica, doveva educare le masse, mostrare che il potere era vulnerabile, che la rivoluzione era possibile. Nel loro delirio criminale, pensavano di agire "per il popolo", per "liberarlo".
Dall'altra parte, il terrorismo neofascista si è sempre mosso in una dimensione completamente diversa, quella della strategia della tensione, concetto che già nel suo nome rivela una filosofia dell'azione politica fondata non sulla pedagogia rivoluzionaria ma sulla manipolazione psicologica delle masse. Il popolo era uno strumento, impersonale, anonimo, e come tale utilizzato. Le stragi di piazza Fontana, di Bologna, dell'Italicus non miravano a colpire specifici rappresentanti del potere ma a creare un clima di terrore diffuso che spingesse la popolazione verso soluzioni autoritarie. Era una violenza che si nutriva di una concezione ciclica della storia, dove la democrazia era vista come un momento di debolezza, di decadenza, che doveva essere superato attraverso una rigenerazione autoritaria. Il sangue innocente versato nelle stazioni e nelle piazze non era un mezzo per un fine politico specifico ma un sacramento oscuro per invocare l'uomo forte, il salvatore della patria. C'era in questo approccio una dimensione quasi mistica, che si rifaceva a una lettura esoterica della politica dove la violenza assumeva caratteri rituali, sacrificali.
Ora, se davvero stiamo assistendo a una mutazione del terrorismo neofascista verso obiettivi singoli, ci troviamo di fronte a un fenomeno che merita una riflessione più profonda. Non si tratta solo di un cambiamento tattico ma di una possibile trasformazione antropologica del soggetto terrorista di destra. Il passaggio dalla strage indiscriminata all'assassinio mirato potrebbe indicare una personalizzazione del conflitto politico che rispecchia dinamiche più ampie della nostra epoca. Viviamo in un'era dove la politica si è sempre più individualizzata, dove i social media hanno trasformato ogni cittadino in un potenziale opinion leader, dove la rabbia sociale non si cristallizza più in movimenti collettivi ma si frammenta in mille rivoli di risentimento personale. Il terrorista contemporaneo potrebbe essere il prodotto di questa atomizzazione sociale, un soggetto che non agisce più in nome di una grande narrazione collettiva ma spinto da un cocktail di frustrazioni personali e ideologie frammentarie pescate nel mare magnum del web.
Questa trasformazione riflette anche un cambiamento nel modo in cui concepiamo il potere nella società contemporanea. Se negli anni Settanta il potere aveva ancora volti riconoscibili, se esisteva ancora una borghesia con caratteristiche sociologiche precise, oggi il potere si è fatto più sfuggente, più reticolare. Il capitalismo contemporaneo non ha più padroni facilmente identificabili ma è diventato un sistema complesso dove responsabilità e colpe si disperdono in una rete di relazioni opache. Di fronte a questa metamorfosi del potere, anche la violenza politica è costretta a reinventarsi, a cercare nuove forme di espressione. L'obiettivo singolo potrebbe rappresentare un tentativo di ri-personalizzare un conflitto che rischia di perdersi nell'astrazione dei meccanismi sistemici.
C'è poi una dimensione culturale che non possiamo ignorare. La nostra epoca è caratterizzata da quello che potremmo chiamare un "narcisismo della violenza", dove l'atto violento diventa prima di tutto un modo per affermare la propria esistenza, per uscire dall'anonimato di una società che massifica e omologa. Il terrorista contemporaneo potrebbe essere meno interessato a cambiare il mondo che a lasciare una traccia indelebile del suo passaggio, a conquistare quei famosi "quindici minuti di celebrità" di cui parlava Warhol. In questo senso, la scelta dell'obiettivo singolo potrebbe rispondere a una logica mediatica: l'assassinio di una persona specifica genera più attenzione mediatica di una strage anonima, crea un racconto più facilmente fruibile dai media contemporanei, sempre alla ricerca di storie con protagonisti riconoscibili.
Ma forse la chiave di lettura più inquietante di questa possibile mutazione risiede nella crisi delle grandi narrazioni ideologiche. Il terrorismo classico, sia di destra che di sinistra, si nutriva di visioni totalizzanti del mondo, di utopie o distopie che davano senso all'azione violenta. Oggi queste grandi narrazioni sono crollate, sostituite da un bricolage ideologico fatto di complottismi, teorie cospirazioniste, mitologie personali costruite attraverso la navigazione casuale nel web. Il terrorista contemporaneo potrebbe essere il prodotto di questo smarrimento ideologico, un soggetto che agisce non più in nome di una causa grande e collettiva ma spinto da un assemblaggio precario di frustrazioni e fantasie di rivalsa. La violenza diventa così non più un mezzo per un fine politico ma un modo per dare forma a un disagio esistenziale che non trova altre modalità di espressione.
Questa trasformazione ci costringe a ripensare non solo le nostre categorie analitiche ma anche le nostre strategie di prevenzione e contrasto. Se il terrorismo classico poteva essere combattuto attraverso l'infiltrazione delle organizzazioni, il controllo dei militanti, la distruzione delle reti logistiche, il terrorismo individualizzato sfugge a queste logiche. Come si previene un atto violento che nasce dalla solitudine di un appartamento, che si nutre di video visti su YouTube, che si radicalizza attraverso forum online? Come si combatte un nemico che non ha una base sociale di riferimento, che non appartiene a una rete organizzata, che agisce seguendo logiche imprevedibili? La sfida è enorme e richiede strumenti completamente nuovi, che vanno dalla comprensione dei meccanismi di radicalizzazione online alla capacità di intercettare i segnali di disagio prima che si trasformino in violenza. Ma soprattutto richiede una riflessione più profonda sulle cause strutturali che alimentano questo disagio, su una società che produce individui così disperati da cercare nella violenza l'unica forma possibile di affermazione personale.
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