UOMINI SENZA STORIA
Il caso del decreto Albano ci pone di fronte a una delle contraddizioni più complesse della contemporaneità italiana, dove la protezione giuridica di un individuo si scontra con la costruzione di una narrativa dell'emergenza che trasforma ogni episodio in un caso paradigmatico della crisi dello Stato di diritto. Qui non si tratta semplicemente di una decisione giudiziaria che ha impedito l'espulsione di un giovane che aveva realizzato un video contenente minacce alla Presidente del Consiglio Meloni e alla figlia, utilizzando termini ingiuriosi nei confronti della Polizia, ma di qualcosa di molto più profondo e articolato: la tensione irrisolta tra la logica del diritto, che valuta i casi nella loro specificità e complessità, e la logica della politica, che tende a trasformare ogni episodio in una battaglia simbolica per l'egemonia culturale e narrativa del paese. Il decreto Albano, nella sua apparente tecnicità giuridica, diventa così il terreno di scontro tra due visioni opposte della giustizia, dello Stato, della convivenza civile, rivelando come ogni decisione giudiziaria sia inevitabilmente anche una scelta politica, ogni applicazione del diritto sia anche una presa di posizione nel conflitto più ampio che attraversa la società italiana.
La destra italiana ha fatto di questo caso un esempio paradigmatico di quella che considera l'abnorme protezione garantita dalla magistratura agli stranieri, costruendo una narrazione che presenta il decreto come l'ennesima dimostrazione di come i giudici, nella loro presunta ideologizzazione, finiscano per proteggere chi minaccia le istituzioni e offende le forze dell'ordine, trasformando quello che dovrebbe essere un atto di giustizia in un atto di complicità con chi attenta alla sicurezza dello Stato. Questa lettura, che ha trovato ampio spazio nel dibattito pubblico e mediatico, trasforma il caso specifico in un simbolo di una giustizia che avrebbe perso il senso della misura, che privilgerebbe i diritti degli stranieri rispetto a quelli degli italiani, che antepporrebbe l'astratta applicazione delle norme internazionali alla concreta tutela della sicurezza nazionale. Ma questa narrazione, per quanto efficace dal punto di vista della mobilitazione del consenso, nasconde una lettura molto più complessa e articolata della realtà giuridica e sociale del paese, una lettura che richiede di andare oltre la superficie della polemica politica per comprendere le ragioni profonde che hanno portato a questa decisione.
Il giovane in questione, cresciuto in Italia, senza precedenti penali significativi, calciatore professionista con regolare retribuzione, rappresenta infatti uno di quei casi limite in cui la biografia individuale si scontra con l'atto specifico, dove la storia di integrazione si confronta con il gesto di rottura, dove la valutazione complessiva della persona deve fare i conti con la gravità del comportamento contestato. La magistratura, nel prendere la sua decisione, ha dovuto bilanciare diversi elementi: la gravità delle minacce proferite, che certamente non possono essere minimizzate o giustificate, la storia personale del giovane, che testimonia un percorso di integrazione sostanziale nella società italiana, le conseguenze di un'eventuale espulsione, che avrebbe significato la rottura definitiva di legami familiari, sociali e professionali costruiti nel corso di una vita, e infine la proporzionalità della sanzione rispetto al reato commesso. Questa valutazione multidimensionale, che considera non solo l'atto ma anche la persona, non solo il reato ma anche il contesto, non solo la punizione ma anche la possibilità di recupero, rappresenta uno dei pilastri fondamentali dello Stato di diritto democratico, che rifiuta la logica del taglione per abbracciare quella della giustizia come equilibrio tra diverse esigenze.
Ma la complessità del caso non si limita alla dimensione giuridica, perché tocca anche questioni più profonde legate alla natura stessa dell'integrazione, alla costruzione dell'identità in una società multiculturale, al rapporto tra libertà di espressione e rispetto delle istituzioni. Il video realizzato dal giovane non può essere liquidato come una semplice bravata o come l'espressione di un disagio giovanile, perché contiene elementi di minaccia e di offesa che vanno presi sul serio, che richiedono una risposta ferma da parte dello Stato, che non possono essere giustificati nemmeno dalla giovane età o dalle difficoltà di integrazione. Allo stesso tempo, però, questo gesto non può essere letto come la prova di una radicalizzazione irreversibile, come la dimostrazione di una pericolosità sociale permanente, come la conferma che l'integrazione sia sempre e comunque superficiale e revocabile. La sfida della giustizia democratica è proprio quella di riuscire a tenere insieme questi due aspetti, di condannare fermamente il gesto senza demonizzare la persona, di punire il comportamento senza negare la possibilità di recupero, di tutelare la sicurezza delle istituzioni senza rinunciare ai principi dell'uguaglianza e della proporzionalità.
La narrazione costruita dalla destra italiana attorno a questo caso rivela però una concezione molto diversa della giustizia, una concezione che privilegia la dimensione simbolica rispetto a quella sostanziale, che vede nell'esemplarità della punizione il valore fondamentale da tutelare, che considera l'espulsione non tanto come una sanzione proporzionata al reato quanto come un messaggio da inviare all'intera comunità degli stranieri residenti in Italia. È una logica che trasforma la giustizia in spettacolo, che subordina il diritto alla politica, che fa della singola sentenza un terreno di battaglia per l'egemonia culturale del paese. In questa prospettiva, il decreto Albano non viene valutato per la sua correttezza giuridica o per la sua capacità di bilanciare diritti e doveri, ma per il messaggio che trasmette, per l'effetto che produce sull'opinione pubblica, per il consenso che genera o che sottrae al governo. È una visione strumentale della giustizia che riduce i giudici a megafoni della politica, che trasforma ogni decisione giudiziaria in un atto di guerra o di pace nei confronti del potere esecutivo, che nega l'autonomia e l'indipendenza della magistratura in nome di una presunta volontà popolare che dovrebbe prevalere su ogni altra considerazione.
Ma c'è di più, perché questa narrazione dell'emergenza non si limita al caso specifico ma si estende a tutta la questione migratoria, costruendo un immaginario in cui ogni straniero è un potenziale nemico, ogni decisione giudiziaria favorevole agli stranieri è un atto di tradimento, ogni applicazione delle convenzioni internazionali è una forma di sottomissione a poteri esterni. Il caso del decreto Albano diventa così il simbolo di una giustizia che avrebbe perso il controllo, che proteggerebbe i nemici della patria, che impedirebbe al governo di attuare quelle politiche di sicurezza che il popolo sovrano avrebbe democraticamente scelto. È una narrazione che delegittima sistematicamente la magistratura, che presenta ogni decisione sgradita come il frutto di una giustizia politicizzata, che trasforma la normale dialettica tra poteri dello Stato in uno scontro esistenziale tra chi difende l'Italia e chi la tradisce.
Questa costruzione narrativa ha conseguenze che vanno ben oltre il caso specifico, perché contribuisce a creare un clima di tensione permanente tra istituzioni, un'atmosfera di sospetto reciproco che indebolisce la coesione democratica del paese. Quando ogni decisione giudiziaria viene letta in chiave politica, quando ogni applicazione del diritto viene trasformata in un atto di guerra o di pace nei confronti del governo, quando ogni sentenza viene misurata non sulla base della sua correttezza giuridica ma della sua utilità politica, allora lo Stato di diritto entra in crisi, perché viene meno quel minimo di fiducia reciproca tra istituzioni che è la condizione necessaria per il funzionamento di una democrazia liberale. Il decreto Albano, in questo senso, non è solo una sentenza ma è il sintomo di una malattia democratica più profonda, di una polarizzazione che sta trasformando ogni questione tecnica in una battaglia ideologica, ogni problema specifico in uno scontro di civiltà.
La questione del giovane che ha minacciato la Presidente del Consiglio tocca anche un altro nodo cruciale della contemporaneità, quello del rapporto tra libertà di espressione e rispetto delle istituzioni nell'era dei social media. Il video incriminato non è stato realizzato in un momento di rabbia privata ma è stato diffuso pubblicamente, trasformando una minaccia personale in un atto di sfida pubblica alle istituzioni democratiche. Questo aspetto non può essere sottovalutato, perché nell'era della comunicazione digitale ogni gesto ha una risonanza potenzialmente illimitata, ogni parola può diventare virale, ogni minaccia può ispirare emulazione. La magistratura, nel valutare questo caso, ha dovuto tenere conto anche di questa dimensione, bilanciando la gravità del gesto con la sua natura prevalentemente simbolica, considerando tanto l'offesa arrecata alle istituzioni quanto la capacità effettiva di danno del giovane. È una valutazione complessa che richiede di andare oltre la superficie del fatto per coglierne le implicazioni più profonde, che esige di considerare non solo l'atto in sé ma anche il contesto in cui è stato commesso, la personalità di chi lo ha commesso, le conseguenze che potrebbe avere una sanzione sproporzionata.
Ma forse l'aspetto più significativo del decreto Albano è la sua capacità di rivelare le contraddizioni della società italiana contemporanea, divisa tra l'aspirazione all'integrazione e la paura dell'alterità, tra la volontà di essere una democrazia aperta e il bisogno di costruire confini identitari, tra l'accettazione formale del multiculturalismo e la difficoltà di gestirne le conseguenze concrete. Il giovane protagonista di questa vicenda rappresenta infatti una di quelle figure che sfidano le categorie tradizionali dell'appartenenza: è straniero ma è cresciuto in Italia, è integrato ma ha commesso un gesto di rottura, è un esempio di successo ma anche di fallimento del processo di integrazione. La sua storia non si presta a letture univoche, non può essere ridotta a slogan politici, non può essere utilizzata per confermare pregiudizi consolidati. È una storia che richiede sfumature, che esige comprensione, che chiede di andare oltre la superficie per cogliere la complessità dell'esperienza umana in una società in trasformazione.
Il decreto Albano ci costringe quindi a riflettere non solo su una specifica decisione giudiziaria ma su una trasformazione più generale della società italiana, su una crisi che investe tanto la dimensione giuridica quanto quella politica e sociale. È una crisi che non riguarda solo il rapporto tra italiani e stranieri ma il rapporto tra cittadini e istituzioni, tra diritto e politica, tra giustizia e consenso. In una società dove ogni decisione giudiziaria diventa una battaglia politica, dove ogni applicazione del diritto viene trasformata in un atto di guerra o di pace nei confronti del governo, dove ogni sentenza viene misurata non sulla base della sua correttezza giuridica ma della sua utilità elettorale, la democrazia entra in sofferenza, perché viene meno quel minimo di consenso sulle regole del gioco che è la condizione necessaria per il funzionamento di una comunità politica. Il caso del decreto Albano, in questo senso, non è solo una questione di diritto dell'immigrazione ma è una cartina di tornasole della salute democratica del paese, un test della capacità della società italiana di gestire la complessità del presente senza rinunciare ai principi dell'uguaglianza e della giustizia che sono alla base della convivenza civile.
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