ANORESSIA A GAZA
Eccoci qui, nel 2025, a dover spiegare che una ragazza morta di fame è effettivamente morta di fame, e non per chissà quale disturbo alimentare da manuale di psicologia applicata con la fantasia di chi evidentemente ha troppo tempo libero e troppo poco cervello. Perché vedete, cari commentatori da tastiera, nel mondo reale - quello che esiste al di fuori delle vostre bolle ideologiche e delle vostre certezze granitiche forgiate sui social network - quando in una zona assediata da mesi, dove gli aiuti umanitari arrivano col contagocce e il cibo è razionato come durante la seconda guerra mondiale, una ragazza muore pesando la metà di quanto dovrebbe, la causa è abbastanza intuitiva anche per un laureato in commenti Facebook con specializzazione in geopolitica da bar. Ma no, evidentemente dobbiamo ipotizzare l'anoressia nervosa in una ragazza di Gaza, perché ovviamente il problema principale delle ragazze palestinesi in questo momento è la preoccupazione estetica per la propria immagine corporea e non il fatto che non possono mangiare perché il cibo non c'è. È geniale, davvero, questa teoria che trasforma una tragedia umanitaria in un caso clinico da manuale di psichiatria, come se una ragazza in mezzo alle bombe e alla distruzione si svegliasse la mattina preoccupandosi di essere troppo grassa invece di chiedersi se quel giorno ci sarà qualcosa da mettere sotto i denti. Ma d'altronde questa è l'epoca in cui tutto diventa opinabile, perfino la realtà più cruda e documentata: se non ti piace che un fatto contradica la tua narrazione, semplicemente lo neghi o lo reinterpreti secondo le tue convenzioni ideologiche. È il trionfo del negazionismo dell'ovvio, quella splendida forma mentis che permette di guardare un bambino scheletrico e dire "ma no, è solo anoressico", con la stessa disinvoltura con cui si nega il riscaldamento globale mentre il mondo brucia o si mette in dubbio l'efficacia dei vaccini mentre le corsie degli ospedali si riempiono. Perché ammettere che la malnutrizione infantile sia causata dalla mancanza di cibo significherebbe riconoscere che esiste un problema umanitario, e riconoscere che esiste un problema umanitario potrebbe implicare che qualcuno ne ha responsabilità, e riconoscere le responsabilità potrebbe incrinare la purezza cristallina della propria posizione geopolitica. Meglio quindi inventarsi diagnosi psichiatriche fantasiose, trasformare vittime di guerra in pazienti immaginari, perché così si può continuare a dormire sonni tranquilli sapendo che la propria coscienza è al sicuro dalle scomodità della realtà. È la stessa logica perversa che porta a cercare giustificazioni assurde per ogni atrocità, come se la creatività nell'interpretazione dei fatti fosse una virtù invece che una forma di complicità morale. E così assistiamo a questo spettacolo grottesco dove medici veri, che hanno visitato e curato questa ragazza, vengono messi in discussione da tuttologi del web che evidentemente sanno diagnosticare disturbi alimentari a distanza meglio di chi ha fatto anni di università e ha visto il paziente con i propri occhi. È l'apoteosi dell'era post-verità, dove chiunque può dire qualunque cosa e pretendere che abbia lo stesso peso dell'evidenza scientifica, dove ogni opinione vale quanto un fatto documentato, dove la competenza professionale vale meno di un'intuizione da social media. Perché in fondo, che cosa ne possono sapere i dottori di medicina? Meglio fidarsi del primo che passa e dice la sua su internet, magari con un bel corso serale di YouTube Medical School alle spalle. La cosa più inquietante non è nemmeno la stupidità di queste teorie, ma la facilità con cui vengono accettate e condivise da persone presumibilmente dotate di raziocinio, come se bastasse dire "secondo me" per trasformare un delirio in un'ipotesi plausibile. È il sintomo di una società che ha perso la capacità di distinguere tra fatti e opinioni, tra evidenza e wishful thinking, tra realtà e narrazione. Una società dove tutto può essere messo in discussione non per spirito critico genuino, ma per convenienza ideologica, dove il dubbio metodico si trasforma in negazionismo sistematico. E così una ragazza morta di fame diventa un caso psichiatrico, perché fa più comodo a chi non vuole vedere, a chi non vuole sapere, a chi preferisce vivere in un mondo dove le tragedie umanitarie sono sempre colpa di altro, mai conseguenza diretta di scelte politiche e militari precise. È la banalizzazione dell'orrore attraverso la medicalizzazione dell'ovvio, il tentativo di trasformare una vittima di guerra in una paziente psichiatrica per non dover fare i conti con le cause reali della sua morte. Perché è più facile parlare di anoressia che di assedio, più comodo discutere di disturbi mentali che di responsabilità politiche, più rassicurante credere che il problema sia nella testa della vittima piuttosto che nelle azioni di chi controlla i confini e decide cosa può entrare e cosa no. Ed eccoci quindi a questo punto, dove dobbiamo spiegare l'ovvio a gente che si rifiuta di vederlo, dove dobbiamo argomentare contro il non-senso, dove dobbiamo difendere la realtà dall'interpretazione creativa di chi evidentemente vive su un altro pianeta, un pianeta dove i bambini muoiono di anoressia in zone di guerra e dove i medici non sanno distinguere la malnutrizione dai disturbi alimentari. Un pianeta dove tutto è possibile tranne la verità più semplice e dolorosa: che una ragazza è morta di fame perché il cibo non poteva arrivare, punto e basta, senza bisogno di teorie alternative, diagnosi fantasiose o interpretazioni creative della realtà.
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