ASTUZIA EVANGELICA


La parabola dell'amministratore disonesto nel Vangelo di Luca rappresenta uno dei testi più enigmatici e provocatori dell'insegnamento di Gesù. Questo breve racconto si configura come un nodo complesso di significati che intreccia domande profonde su vita, decisione, relazioni e futuro. La figura centrale non è un eroe morale né un esempio da seguire pedissequamente, ma piuttosto un personaggio ambiguo che, di fronte alla crisi imminente del licenziamento, escogita una strategia astuta non per arricchirsi, ma per tessere una rete di relazioni che gli garantisca accoglienza. Il genio narrativo di Gesù emerge proprio in questa scelta provocatoria: non ci presenta un giusto irreprensibile, ma un uomo imperfetto che tuttavia compie un gesto di intelligenza lungimirante. Non si tratta di un elogio della disonestà, quanto piuttosto di una riflessione sulla capacità di essere "furbi in modo giusto", utilizzando le risorse disponibili - tempo, denaro, capacità, legami - con una visione che trascende l'immediato vantaggio personale. Questa prospettiva sfida le nostre categorie morali consolidate. Se Platone nel Gorgias definiva la vera saggezza come adesione al bene e alla giustizia oltre l'utile personale, Gesù introduce qui un paradosso ulteriore: anche l'astuzia, quando orientata verso un bene più grande, può configurarsi come forma di giustizia. È una provocazione che mette in discussione il nostro bisogno di certezze morali nette e ci invita a riconoscere la complessità dell'agire umano. La distinzione tra l'astuzia evangelica e quella politica tradizionale risulta illuminante. Mentre Machiavelli nel Principe celebra la figura della "volpe" capace di manipolare per sopravvivere e dominare, l'astuzia proposta da questa parabola persegue obiettivi radicalmente diversi. Non mira al controllo o al potere, ma alla creazione di relazioni autentiche, al "farsi amici" attraverso i beni materiali. Questa logica rappresenta una contro-narrazione rispetto alla politica del dominio. In un tempo in cui l'amministrazione del potere si gioca spesso sulla gestione esclusiva delle risorse e sull'amplificazione delle divisioni, la parabola suggerisce un modello alternativo: utilizzare intelligenza e mezzi per includere, per costruire reti di solidarietà piuttosto che di esclusione. Chi amministra, chi governa, è chiamato a investire nelle persone, non semplicemente a controllare le strutture. Tuttavia, emerge qui una tensione critica che merita attenzione: come distinguere tra astuzia saggia e opportunismo? Il confine può risultare sottile, e il rischio di giustificare compromessi eticamente discutibili in nome di un presunto bene maggiore è reale. La chiave di distinzione sembra risiedere nell'orientamento dell'azione: se genera inclusione e futuro condiviso, anche partendo da motivazioni miste, può produrre bene autentico; se invece mantiene o rafforza le esclusioni esistenti, rimane sterile calcolo. Sul piano culturale, la parabola tocca un nervo scoperto della nostra epoca: l'ossessione per l'indipendenza individuale. La società contemporanea celebra l'autosufficienza, il successo personale, il mito del "self-made man". Ma l'amministratore della parabola percorre una strada diversa: comprende che il suo futuro dipende dagli altri e agisce di conseguenza per creare connessioni significative. Non accumula per rafforzare la propria posizione, ma condivide per costruire uno spazio di reciprocità. Questa logica riecheggia filosofie comunitarie come l'ubuntu africano, secondo cui "io sono perché noi siamo", e rappresenta un richiamo potente al valore della relazione come fondamento dell'identità personale e sociale. Dal punto di vista sociale, la parabola costituisce una critica discreta ma penetrante alla gestione delle risorse nella nostra società. In un mondo segnato da disuguaglianze crescenti, dove una piccola percentuale della popolazione possiede la maggior parte della ricchezza, il testo evangelico pone una domanda urgente: che uso facciamo di ciò che possediamo? L'amministratore compie un gesto controintuitivo: rinuncia a una parte del guadagno per creare fiducia e aprirsi un futuro. È una lezione sorprendente sull'uso etico del denaro, inteso non come fine in sé, ma come mezzo per edificare relazioni autentiche e inclusive. Il "mammona iniquo" di cui parla Gesù non viene demonizzato, ma assunto come parte del mondo reale che può essere orientata al bene attraverso scelte sagge e discernimento. Sul piano teologico, la parabola rivela una visione profondamente incarnata che rifiuta il dualismo tra spirito e materia. Tutto ciò che esiste può essere ordinato al Regno se utilizzato con saggezza. È la teologia della creazione: il mondo è stato fatto "buono" e ogni realtà, anche quella più ambigua come il denaro, può diventare occasione di bene quando messa al servizio dell'altro. Ma c'è una dimensione ancora più radicale: l'amministratore non rappresenta un modello di perfezione morale. È un uomo imperfetto, colto in un momento di crisi, e proprio per questo diventa figura profondamente umana. La parabola suggerisce che non dobbiamo essere santi per diventare strumenti di bene: Dio opera anche attraverso i nostri limiti, le nostre paure, le nostre strategie imperfette. Questa prospettiva apre spazio a un modello di leadership diverso: non quella che cerca l'ideale irraggiungibile, ma quella che sa agire nel reale, mediare, trovare soluzioni imperfette ma orientate al bene comune. Un'amministrazione saggia non è quella che controlla tutto, ma quella che sa investire concretamente nelle persone. La questione finale rimane quella esistenziale, forse la più urgente: quale futuro stiamo costruendo? L'amministratore agisce per non trovarsi privo di tutto. La sua azione nasce dalla consapevolezza del tempo limitato e dalla necessità di utilizzarlo con intelligenza. Questa urgenza richiama la riflessione kierkegaardiana sull'angoscia della scelta e sulla responsabilità individuale. In un'epoca segnata da crisi ambientali, instabilità politica, incertezze economiche e fragilità relazionali, la parabola diventa uno specchio che riflette la nostra condizione: ambigui, fragili, pieni di contraddizioni, ma anche capaci di scelte sorprendenti e di gesti che costruiscono futuro. La parabola dell'amministratore disonesto non ci chiede la perfezione morale, ma l'intelligenza spirituale di non sprecare il tempo e le risorse che ci sono stati affidati. È una chiamata a rimanere "svegli", attenti, creativi nel tempo che abbiamo, utilizzando ogni mezzo disponibile per fare spazio al Regno, qui e ora. Questa vigilanza non coincide né con il moralismo astratto né con il cinismo rassegnato, ma si configura come responsabilità concreta che sa riconoscere e utilizzare anche le nostre imperfezioni come strumenti di trasformazione. L'amministratore ci insegna che possiamo agire per il bene anche quando non siamo perfetti, anche quando siamo solo un po' più svegli del solito. In fondo, è questo il messaggio più rivoluzionario della parabola: la grazia non attende la nostra perfezione per operare, ma lavora attraverso la nostra umanità concreta, con tutte le sue ambiguità e le sue possibilità inespresse. È un invito a non sottovalutare la potenza trasformativa di gesti apparentemente piccoli, quando sono orientati dalla saggezza del cuore e dalla disponibilità autentica verso l'altro.

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