BLACK-PASS
Paragonare la tessera del Partito Fascista al green pass è una di quelle trovate che, dette con aria ispirata e tono grave, fanno un certo effetto nei video su YouTube, nei post indignati su Facebook o durante certe chiacchierate da bar con l’aperitivo in mano e l’indignazione a buon mercato. Ma basta grattare appena la superficie, applicare un minimo – e dico proprio il minimo sindacale – di onestà intellettuale, e tutta la costruzione crolla come un castello di carte sotto un ventilatore acceso. È il solito giochino retorico che sfrutta la parola “fascismo” come una clava da sventolare ogni volta che qualcosa non ci piace, come se tutto ciò che implica una regola, un limite, una scelta politica sgradita fosse automaticamente il preludio a un nuovo Ventennio. Il problema è che quando tutto diventa fascismo, il fascismo vero sparisce dalla nostra memoria storica e dalla nostra coscienza civile, e il risultato è che finiamo per banalizzare l’orrore, annacquarlo, trasformarlo in una barzelletta da tastiera.
La tessera del Partito Fascista non era una seccatura burocratica o un lasciapassare sanitario: era il simbolo concreto della tua adesione forzata a un sistema totalitario che pretendeva il controllo non solo dei tuoi comportamenti, ma anche dei tuoi pensieri. Non ce l’avevi? Allora eri fuori: fuori dal lavoro, fuori dai circuiti di potere, fuori dalla società civile. Non era solo una formalità, era una dichiarazione di sottomissione. Non serviva per entrare in un ristorante, ma per non essere marchiato come nemico del regime. E “nemico del regime”, in quegli anni, non era un’etichetta simbolica: era un rischio reale di finire perseguitato, licenziato, picchiato, deportato, o semplicemente cancellato dalla vita pubblica. Il fascismo non si limitava a suggerirti cosa fosse meglio per te: ti diceva cosa dovevi pensare, chi dovevi votare [ammesso che si votasse], quali giornali potevi leggere, quali libri erano consentiti, cosa doveva studiare tuo figlio, quale versione della storia era ammessa. Era un sistema totalizzante, invasivo, pervasivo, che non tollerava il dissenso nemmeno come sussurro.
Ora, confronta tutto questo con il green pass, che – piaccia o meno – era uno strumento temporaneo adottato in mezzo a una crisi sanitaria globale senza precedenti, con l’obiettivo di contenere i contagi e tenere in piedi ospedali che stavano letteralmente collassando sotto il peso dei malati. Era perfetto? No. Era discutibile? In certi aspetti, assolutamente sì. Ma era il frutto di un processo democratico, non di un’ideologia totalitaria. I giornali continuavano a criticare il governo, l’opposizione faceva il suo mestiere, i tribunali bocciavano i provvedimenti quando necessario, e le piazze erano piene di manifestanti – alcuni anche piuttosto vivaci – che urlavano tutto il loro dissenso. Nessuno veniva arrestato per una battuta contro Draghi, nessuno veniva schedato perché non esibiva il green pass in trattoria. Non c’erano squadracce in giro, non c’erano confini ideologici da rispettare per poter lavorare o studiare. E, soprattutto, non c’era un’ideologia imposta dall’alto con la pretesa di rifare l’uomo italiano a immagine e somiglianza del regime.
Il green pass non era la nuova camicia nera. Non ti chiedeva di giurare fedeltà a un capo carismatico, non pretendeva che appendessi il suo ritratto in salotto. Potevi averlo ed essere critico, potevi non averlo ed essere ascoltato – magari non ovunque, magari con delle restrizioni, ma nessuno ti condannava al silenzio. E soprattutto, potevi cambiare idea. In un regime totalitario, cambiare idea non è un'opzione: o stai dentro, o sei fuori. Fuori dal lavoro, fuori dalla scuola, fuori dal consesso civile, fuori dalla protezione dello Stato. E questo non per motivi sanitari, ma per motivi ideologici. Non per fermare un virus, ma per controllare la tua coscienza.
Paragonare le due cose è non solo storicamente falso, ma anche moralmente indegno. È un insulto a chi sotto il fascismo ci ha rimesso la pelle. A chi è stato incarcerato per aver detto “no”. A chi è stato fucilato perché credeva nella libertà. A chi è stato spedito nei lager, o costretto all’esilio, o ucciso per aver osato pensare diversamente. È un insulto ai partigiani, agli antifascisti, ai sopravvissuti ai campi di concentramento, alle famiglie spezzate dalle leggi razziali. È un insulto alla memoria. E sai qual è la cosa peggiore? Che così facendo, si indebolisce la vigilanza contro il fascismo vero. Perché se tutto è fascismo, allora niente lo è. Se ogni certificato diventa un atto autoritario, allora non saremo pronti a riconoscere e combattere la vera autorità quando si manifesterà. È il solito grido al lupo che finisce per rendere tutti sordi. Alla fine, quando il lupo arriva davvero, nessuno si gira più. Tutti troppo stanchi di ascoltare frottole.
Ecco perché continuare a usare certe analogie da discount, gonfiate di retorica e svuotate di sostanza, non è solo sciocco. È pericoloso. Perché diseduca, distorce, annebbia il giudizio. Fa sembrare tutto uguale, quando invece le differenze contano eccome. La democrazia ha limiti, difetti, contraddizioni. Ma è ancora il miglior sistema che abbiamo per bilanciare diritti, libertà e sicurezza. E durante la pandemia, per quanto imperfetta, ha continuato a funzionare. A scatti, con errori, certo. Ma ha funzionato. E chi confonde una risposta sanitaria – farraginosa, confusa, a volte maldestra – con un regime totalitario, dimostra solo di non aver capito nulla. Né della pandemia, né della Storia.
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