CITTADINANZA IPOCRITA

Ecco, diciamolo senza giri di parole: la cittadinanza oggi è una barzelletta di pessimo gusto, un teatro dell'assurdo dove chi vive qui, lavora, paga le tasse su ogni respiro e si sciroppa montagne di burocrazia si sente dire "grazie, ma la tessera del club non è per te". E così puoi contribuire alle pensioni altrui, mantenere servizi pubblici che magari neppure usi, rispettare tutte le leggi e anche quelle che non sapevi esistessero, ma guai a pretendere di votare, candidarti o partecipare davvero alla vita politica: tu sei quello che paga il biglietto e guarda lo spettacolo da fuori, una specie di abbonato premium senza diritti, il classico pollo da spennare che ringrazia pure per il privilegio di essere pelato.

Una delle giustificazioni più paradossali che emergono nel dibattito è quella di chi sostiene che "tanto già godono di tutti i diritti". Questa affermazione nasconde una contraddizione logica evidente: se ammetti che qualcuno ha già tutti i diritti di un cittadino, stai implicitamente riconoscendo che è già cittadino nei fatti. Il rifiuto di formalizzarlo diventa allora puramente simbolico, una forma di esclusione che serve più a marcare una distinzione di status che a proteggere qualcosa di concreto.

E mentre ti tocca questo limbo da servo con la ricevuta in mano, ecco che arriva lo jus sanguinis a ricordarci quanto sia grottesca tutta la faccenda, perché basta un bisnonno emigrato per avere un passaporto gratis, pure se non distingui la carbonara da una quiche, pensi che Garibaldi sia una marca di biscotti e l'unica cosa italiana che conosci è il cappuccino dopo cena [che qui ti farebbe linciare], ma hey, hai il DNA giusto, quindi benvenuto nel club esclusivo dei cittadini per caso.

Nel frattempo, chi è nato e cresciuto qui, chi ha imparato le tabelline in italiano e sa a memoria l'inno di Mameli, deve aspettare la maggiore età per supplicare un pezzo di carta che certifichi quello che già vive dalla nascita, come se dovesse dimostrare di essere figlio dei suoi genitori dopo aver vissuto diciotto anni in casa loro.

L'ultimo referendum, fallito per il mancato raggiungimento del quorum, era chiaro: si prevedeva di ridurre solo il tempo di permanenza dei soggetti maggiorenni da 10 a 5 anni, mantenendo comunque le condizioni di conoscenza della lingua italiana, una residenza stabile, un lavoro stabile, l'assenza di precedenti penali ed essere in regola con gli obblighi legali - praticamente molto di più di quanto molti cittadini italiani abbiano. Eppure, c'è chi, o per non averlo capito, o perché glielo hanno raccontato male, o per malafede, ha «preferito non rischiare». Cose da matti.

E sentire ancora la solfa della "sacra identità" minacciata è esilarante quanto tragico: siamo un Paese che cambia dialetto ogni 20 chilometri, fa guerre di religione su come si cucinano i tortellini, dove al nord ti guardano storto se ordini un caffè macchiato dopo le undici e al sud ti prendono per matto se chiedi la pasta col sugo senza aglio, ma poi si spaventa per un couscous o una moschea come se fossero armi di distruzione di massa culturale, quando invece dovremmo preoccuparci di più di chi distrugge davvero il tessuto sociale evadendo il fisco o rubando nelle istituzioni.

Il vero discrimine dovrebbe essere se rispetti le regole e i valori democratici, se contribuisci al bene comune invece di succhiare risorse senza dare nulla in cambio, non se hai il DNA giusto o il cognome con la "i" finale o se tuo nonno aveva la fortuna di nascere dalla parte giusta del confine quando ancora si spostava come un elastico ogni due generazioni.

Perché, se dobbiamo dirla tutta e smetterla con l'ipocrisia da quattro soldi, i cittadini "puri" che evadono le tasse, rubano fondi pubblici, parcheggiano in doppia fila, buttano cartacce per strada e poi si lamentano del degrado fanno più danni di qualunque immigrato che chiede semplicemente un posto di lavoro o di preghiera. Eppure quelli hanno il passaporto garantito a vita mentre chi vince medaglie olimpiche per noi, insegna ai nostri figli, salva vite negli ospedali, paga religiosamente le multe per divieto di sosta e non sgancia mai la propria parte di contributi deve ancora dimostrare di "meritare" un riconoscimento che dovrebbe essere automatico.

È un'ingiustizia vestita da formalismo, una cocciutaggine mascherata da principio che ci fa sembrare un club snob e fuori dal mondo, dove conta più il certificato di nascita che il comportamento effettivo, più il caso che il merito, più la burocrazia che la sostanza. E alla fine ci ritroviamo con cittadini che non se ne fregano nulla del Paese e non-cittadini che ci tengono più di molti "originali".

Riconoscere come cittadini quelli che già lo sono nei fatti, nei doveri, nell'attaccamento e nella partecipazione quotidiana non è aprire le porte a tutti in modo indiscriminato, non è svendere la patria al primo che passa: è semplicemente smettere di recitare una farsa che ci fa perdere energie, fiducia, talenti e quel senso di comunità che dovrebbe essere il vero collante di una nazione civile.

Ma a quanto pare, qui preferiamo continuare a far finta di difendere qualcosa che non abbiamo il coraggio nemmeno di definire con chiarezza, aggrappandoci a un'idea di cittadinanza che è più un privilegio ereditario che un patto sociale, più una questione di fortuna geografica che di scelta consapevole. E così ci perdiamo per strada le persone migliori mentre coccoliamo quelle peggiori solo perché hanno avuto la botta di culo di nascere nel posto giusto.

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