CROMOFOBIA


Siamo ridotti così: il nero come dichiarazione politica, l’uniformità come fantasia erotica dell’ordine, e il “woke” come mostro da abbattere per sentirsi crociati nella propria cameretta. Patetico è dir poco: non si tratta di un’innocente scelta estetica – quella almeno avrebbe un suo senso – ma di una guerra cromatica contro qualsiasi sfumatura che non sia buio totale, come se un mondo variopinto fosse una minaccia alla propria fragile visione. Il nero, il “non-colore” per eccellenza, assurge a vessillo dei monocromatici dell’anima, incapaci di gestire la complessità, affezionati alla rassicurante piattezza di una tavolozza ridotta al minimo, come se togliere le sfumature alla vita la rendesse improvvisamente più sopportabile. Ironico poi che proprio il nero, un tempo simbolo di anarchia e ribellione, sia ora il drappo preferito dell’ordine reazionario – Coco Chanel si rivolterebbe vedendo il suo tubino trasformato in divisa del conformismo. E non parliamo della nostalgia da Balilla, quel brivido malsano per l’infanzia marziale in cui tutti erano uguali, marciavano in fila e si risparmiava il fastidio di scoprire chi si voleva essere: bastava un fischio e via, identità annullata per il bene superiore. L’anti-woke diventa la stampella perfetta di questa pulsione uniformante: se il “woke” è moltiplicazione di identità e diritto all’autodeterminazione, combatterlo significa sognare il ritorno all’armadio ordinato, dove la gente si ripone per categoria. È una fantasia di controllo con sfumature erotiche, il sogno di riportare il caos della vita all’ordine militare, come un ritorno platonico alle forme pure, solo che al posto delle idee perfette abbiamo divise impeccabili e contemplazione del nero assoluto. Politicamente, è la favola tossica di una società senza conflitto, ottenuta non con il dialogo, ma con l’eliminazione brutale delle differenze; è il rifiuto della “carnivalizzazione” del presente, l’orrore per un mondo dove chiunque può interpretare qualsiasi ruolo, sostituito dal sogno grigio di un casermone in cui il ruolo è fisso e inamovibile. È agorafobia esistenziale: paura degli spazi aperti dell’identità, terrore della scelta libera, voglia di chiudersi nella gabbia rassicurante della definizione unica. E il paradosso è che più si odia il “woke”, più lo si vive: si finisce per studiare le teorie di genere più dei teorici di genere stessi, per pensare all’intersezionalità più degli intersezionalisti, definendo se stessi solo in opposizione all’altro. È militanza rovesciata, ossessione speculare: invece di celebrare la diversità, si adora l’uniformità; invece di colorare il mondo, lo si vorrebbe ricoprire di nero. Ma il nero, ricordiamolo, non è assenza di colore: è tutti i colori messi insieme e nascosti. Forse è proprio questo il terrore vero – che sotto quella patina uniforme ribolla il caos variopinto che si vorrebbe annientare.

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