GUINEAS
L'Italia ha sempre avuto un rapporto complicato con se stessa, una specie di schizofrenia nazionale che si manifesta puntualmente ogni volta che qualcuno dall'aspetto non conforme ai canoni della presunta purezza italica osa eccellere in qualcosa, e così eccoci qui nel 2025 a discutere se Sara Curtis, diciotto anni, nata a Savigliano, cresciuta nelle piscine italiane, sia abbastanza italiana per rappresentarci ai Mondiali, perché evidentemente il colore della pelle conta più del passaporto, della lingua, della cultura, del sudore versato negli allenamenti e del tricolore che indossa con orgoglio. Ma questa non è una novità, anzi è la riproposizione di un copione già visto e rivisto, perché questo paese ha sempre faticato a riconoscere come propri coloro che non rientravano in un'idea ristretta e anacronistica di italianità, e prima di puntare il dito contro Sara Curtis forse dovremmo ricordare come abbiamo trattato i nostri stessi connazionali quando negli anni Cinquanta e Sessanta migliaia di siciliani, calabresi e pugliesi salirono al Nord in cerca di lavoro e dignità, accolti a suon di "terroni" e "meridionali puzzolenti", relegati nelle baraccopoli torinesi che non a caso chiamavano "coree" perché sembravano zone di guerra, costretti a nascondere il loro accento per non essere discriminati sul lavoro, a cambiare cognome per non essere identificati come meridionali, a subire la stessa identica diffidenza che oggi riserviamo a chi ha la pelle di un colore diverso dal nostro. E mentre i milanesi guardavano storto i napoletani che lavoravano nelle loro fabbriche, contribuendo al miracolo economico che ha fatto grande il Nord, oltreoceano i nostri nonni e bisnonni subivano il medesimo trattamento da parte di americani, argentini e australiani che li vedevano come una razza inferiore, buona solo per i lavori più umili e pericolosi, ammassati nei ghetti di Little Italy, linciati a New Orleans nel 1891 perché troppo italiani per essere americani e troppo stranieri per essere rispettati, chiamati "GUINEAS" ancora negli anni Cinquanta e Sessanta perché i loro tratti mediterranei li facevano sembrare, agli occhi dei suprematisti bianchi, più simili agli africani che agli europei, un insulto razziale che equiparava gli italiani ai neri nell'America segregazionista, dove la whiteness era un privilegio da conquistare goccia a goccia, generazione dopo generazione, e dove molti nostri connazionali si sono ritrovati in quella terra di mezzo tra il bianco accettabile e il nero respinto, discriminati per quegli stessi tratti somatici che oggi noi usiamo per discriminare Sara Curtis, in una ironia della storia che dovrebbe farci riflettere, eppure Frank Sinatra, Al Pacino, Robert De Niro e migliaia di altri figli di immigrati italiani sono diventati simboli dell'America stessa, così come i meridionali di ieri sono diventati dirigenti, imprenditori, intellettuali del Nord di oggi. La storia si ripete con una precisione chirurgica: prima erano i dialetti che disturbavanno, ora sono i tratti somatici; prima era la povertà percepita, ora è la diversità culturale; prima erano i "terroni", ora sono gli "extracomunitari", ma il meccanismo è sempre lo stesso, quello di chi ha paura di perdere una presunta purezza che non è mai esistita, perché l'Italia è sempre stata un crocevia di popoli, un melting pot ante litteram dove si sono mescolati romani, longobardi, arabi, normanni, spagnoli, francesi, austriaci, e dove la "razza italiana" è un'invenzione ottocentesca che dovrebbe far ridere chiunque abbia aperto un libro di storia, soprattutto se pensiamo che quegli stessi italiani che oggi si ergono a custodi della purezza etnica discendono da popolazioni che gli americani consideravano così poco bianche da chiamarle "guinea", equiparandole agli africani per i tratti somatici scuri che caratterizzano molti meridionali, una lezione di umiltà storica che evidentemente è andata perduta. Eppure eccoci qui, nel 2025, a spiegare a Sara Curtis che non è abbastanza italiana perché sua madre è nigeriana, mentre festeggiamo Balotelli quando segna un gol per la Nazionale ma lo insultiamo quando sbaglia un rigore, in una schizofrenia collettiva che dice tutto sulla nostra immaturità come paese e come società. Le istituzioni, va detto, hanno sempre brillato per la loro assenza: non hanno fatto nulla per fermare la discriminazione dei meridionali negli anni del boom, non hanno protetto gli italiani all'estero quando venivano linciati o sfruttati, e oggi si limitano a qualche dichiarazione di circostanza quando i social media esplodono di razzismo, ma senza mai affrontare il problema alla radice, senza mai spiegare agli italiani che l'identità nazionale non è questione di genetica ma di scelte, di valori, di appartenenza culturale. Sara Curtis rappresenta esattamente quello che dovremmo essere: una ragazza italiana, che ha lavorato duro per l'Italia, che ha portato l'Italia sul tetto del mondo, e se questo non basta a renderla italiana allora il problema non è suo, è nostro, è di un paese che continua a guardarsi l'ombelico invece di guardare avanti, che preferisce coltivare le paure piuttosto che celebrare i successi, che ha trasformato l'identità nazionale in una fortezza assediata invece che in un progetto condiviso. E mentre perdiamo tempo a discutere del colore della pelle di una campionessa, il mondo va avanti, l'Italia si impoverisce di talenti, di energie, di opportunità, perché i giovani come Sara Curtis, stanchi di doversi giustificare per esistere, potrebbero un giorno decidere che l'erba è più verde altrove, e allora sì che avremo davvero qualcosa di cui piangere, non la presunta perdita di una purezza mai esistita, ma la fuga dei cervelli, dei talenti, delle persone migliori che questo paese riesce ancora a esprimere nonostante tutto e nonostante tutti.
Commenti
Posta un commento