IL COMPAGNO PROMETEO VS IL CAMERATA ZEUS

C’è una differenza profonda, quasi antropologica, tra chi vota a sinistra e chi vota a destra, e non si riduce a divergenze su programmi o ideologie. È una differenza che riguarda il modo in cui si concepisce l’autorità, la natura umana e, in fondo, il senso stesso della politica. L’elettore di sinistra ha sempre avuto un rapporto complicato con i propri leader: li sostiene, certo, ma allo stesso tempo li osserva con sospetto, li giudica, li critica. È come se vivesse con l’idea — nobile ma spesso frustrante — che chi governa debba essere educato, migliorato, moralmente elevato. È una visione che affonda le radici nell’Illuminismo, nell’idea che la politica debba servire a rendere l’essere umano migliore, più giusto, più solidale. Per questo, i leader di sinistra raramente godono di fedeltà incondizionata: vengono messi costantemente alla prova, misurati sul piano della coerenza, dell’inclusività, dell’etica. Basta guardare la storia della sinistra italiana per rendersene conto: le continue scissioni, i malumori, i congressi interminabili. Berlinguer, per quanto amato, veniva criticato da sinistra per il compromesso storico; Occhetto, dopo la svolta della Bolognina, fu attaccato da chi non voleva abbandonare il simbolo del PCI; Prodi, pur vincente, fu fatto cadere due volte dal fuoco amico. Ogni leader viene sospettato di non essere “abbastanza”, e spesso finisce per essere logorato non dagli avversari, ma dai propri. È una sinistra che pretende dai propri rappresentanti non solo efficacia, ma anche esemplarità. Ed è proprio questa tensione tra idealismo e pragmatismo che la rende fragile, frammentata, incapace di fare sintesi anche nei momenti decisivi. Dall’altra parte, l’elettore di destra ha un rapporto più semplice, quasi tribale, con il proprio leader: non gli chiede di essere puro, gli chiede di essere forte, protettivo, capace di difendere il gruppo — la famiglia, la nazione, l’identità. Berlusconi ne è stato l’esempio perfetto: contestato dalla sinistra per la sua condotta privata, per i suoi conflitti d’interesse, per la sua comunicazione rozza, ma adorato dal suo elettorato proprio per quegli stessi motivi. Non doveva essere un santo, doveva essere un vincente. La destra tollera le contraddizioni se servono allo scopo, chiude un occhio sulle bugie se queste difendono “i nostri”. È un atteggiamento che non nasce da cinismo, ma da una diversa scala di valori: meglio un leader imperfetto ma fedele, che uno virtuoso ma incerto. Anche sul piano culturale la frattura è netta. La sinistra tende a vedere la cultura come strumento di emancipazione, come veicolo per includere chi è rimasto indietro. Dalla scuola pubblica alla televisione pedagogica della RAI degli anni Sessanta, fino ai festival letterari di oggi, tutto è pensato per allargare gli orizzonti, per abbattere le disuguaglianze. La destra, invece, vede nella cultura l’espressione dell’identità nazionale da difendere: la lingua italiana, il presepe, Dante, la storia patria, le tradizioni locali. Quando Giorgia Meloni parla di “patrioti culturali”, o quando si polemizza sul cambiamento dei programmi scolastici o sulla sostituzione del crocifisso con simboli laici, è proprio questa visione che emerge: la cultura non come ponte, ma come radice. Anche davanti al cambiamento sociale, i due elettorati si comportano in modo opposto. Chi vota a sinistra tende ad accogliere le trasformazioni, anche se creano disagio, nella speranza che portino maggiore giustizia: lo si è visto con il dibattito sulle unioni civili, sull’accoglienza dei migranti, sulla transizione ecologica. C’è spesso un senso di colpa storico, un bisogno di “riparare” i torti del passato. Chi vota a destra invece percepisce il cambiamento come una minaccia, come qualcosa che può scardinare equilibri consolidati: meglio difendere ciò che si conosce che rischiare il salto nel vuoto. Meglio conservare certe ingiustizie note che aprirsi a un’incertezza sconosciuta. Infine, anche il modo di fare politica cambia: la sinistra punta sul ragionamento, sul confronto, sul tentativo di convincere anche chi la pensa diversamente. Crede nel dibattito pubblico, nel valore della parola. La destra invece si concentra sulla mobilitazione emotiva, sull’identificazione con il leader, sul senso di appartenenza. Dove la sinistra vuole conquistare consensi attraverso il dialogo, la destra rafforza il proprio blocco sociale attraverso simboli, slogan, nemici comuni. È anche per questo che, strutturalmente, la sinistra è più fragile: perché si interroga, si divide, si mette in discussione. Mentre la destra, quando si sente minacciata, si compatta, si chiude a riccio. Non è una questione di intelligenza o di moralità, ma di visione del mondo. Chi vota a sinistra vuole cambiare il mondo. Chi vota a destra vuole difendere il proprio posto nel mondo. Due approcci diversi, entrambi profondamente umani.

La mitologia greca offre archetipi perfetti per queste dinamiche: la sinistra trova il suo simbolo in Prometeo, il titano ribelle che sfida l'autorità degli dei per donare il fuoco del progresso agli uomini, accettando di soffrire per questo ideale emancipatorio; la destra in Zeus, il padre degli dei che governa con autorità indiscussa per garantire stabilità e protezione al proprio regno, senza bisogno di essere moralmente irreprensibile. Due archetipi che incarnano visioni opposte del potere e del cambiamento, confermando come questa frattura politica affondi le radici nella natura stessa dell'animo umano, nelle tensioni eterne tra chi vuole trasformare il mondo e chi vuole preservarlo.

Commenti

Post popolari in questo blog

IL SONDAGGIONE: IO VOTO VANNACCI PERCHÈ...

È TUTTO FRUTTO DELLA FANTASIA?

DIALOGO VS MONOLOGO