IL RAGAZZINO E IL GRASSONE


"Tempio di Suma
si sente un flauto che nessuno suona
nella foresta nera d'ombre
BASHO, poeta di Haiku [1643-1694]

Quando si pensa a Hiroshima e Nagasaki, spesso li si colloca in una dimensione distante, quasi sospesa, come se quegli eventi fossero parte di una realtà storica separata, troppo immane per essere davvero assimilata. Eppure, la lezione più inquietante che ci offrono è proprio quella di rivelare quanto possano essere fragili i nostri principi etici quando messi sotto pressione da circostanze estreme. Non furono regimi dittatoriali, non furono despoti sanguinari privi di scrupoli a decidere di sganciare quelle bombe, ma una democrazia occidentale, una nazione che si fondava su valori cristiani, un paese che si vedeva — e veniva visto — come il custode della libertà e della civiltà. Ed è proprio questo che dovrebbe farci riflettere in profondità: nessun sistema politico, nessuna tradizione religiosa, nessuna cultura può garantire un'immunità assoluta contro la possibilità di compiere atrocità. Gli Stati Uniti del 1945 erano una democrazia matura, con istituzioni solide, una stampa indipendente, una società civile vivace, e tuttavia presero la decisione di impiegare un'arma di distruzione di massa su popolazioni civili inermi. Certo, si trattava della fase finale di una guerra totale, un conflitto che aveva già causato decine di milioni di morti, in cui ogni giorno di combattimenti in più significava ulteriori migliaia di vite spezzate. I leader americani erano, forse in buona fede, convinti che l’uso della bomba avrebbe abbreviato il conflitto e salvato vite umane, evitando una sanguinosa invasione del Giappone. Ma è proprio qui che risiede il punto centrale: anche le intenzioni più razionali, anche gli scopi più dichiaratamente umanitari possono condurre a scelte che, col senno di poi, appaiono come violazioni gravissime della dignità umana. La tragedia di Hiroshima e Nagasaki non si esaurisce nelle vittime immediate, nei corpi annientati all’istante, nelle radiazioni che continuarono a uccidere per decenni, ma si incarna anche nel precedente che fu stabilito: per la prima volta nella storia, un’arma capace di distruggere un’intera città fu usata intenzionalmente contro civili. E questo atto non fu compiuto da un folle tiranno, ma da rappresentanti democraticamente eletti che si muovevano secondo ciò che ritenevano la logica della necessità. A distanza di ottant’anni è facile giudicare con la lucidità retrospettiva, ma il vero insegnamento non sta tanto nel condannare ex post quanto nel riconoscere quanto sia sottile il confine tra la civiltà e la barbarie, tra l’etica e la strategia politica, tra ciò che ci sembra inconcepibile in tempo di pace e ciò che diventa improvvisamente plausibile in tempo di guerra. Hiroshima e Nagasaki ci impongono di restare vigili, ci ricordano che nessun valore, nessuna istituzione, nessun ideale è al riparo dal rischio di essere piegato alle logiche della forza o della paura. La democrazia, la religione, la cultura non sono scudi invincibili contro il male: sono strumenti delicati, preziosi, ma che richiedono un’attenzione costante e una riflessione continua su se stessi e sulle proprie ambiguità. Forse la vera eredità di quelle due città martiri non è tanto la memoria di un orrore lontano, quanto la consapevolezza che quel tipo di orrore è sempre potenzialmente presente, sempre pronto a riaffiorare in qualsiasi contesto umano, e che solo una vigilanza etica lucida e instancabile può sperare di impedirgli di tornare.

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