MEANING-CHECKING
Prendo spunto da un post su X di Marco Lisei, in cui egli accusa una parte politica di strumentalizzare l'immagine di un bambino a fini politici, finendo però a sua volta per strumentalizzarlo per i propri scopi.
C'è qualcosa di profondamente disturbante nel modo in cui la politica contemporanea tratta le immagini del dolore, e il caso della foto del bambino palestinese ne è un esempio paradigmatico che ci dice molto su come funziona oggi la comunicazione pubblica. Da una parte abbiamo chi usa quella foto per dire "guardate, a Gaza si muore di fame", un messaggio che, al di là della precisione specifica di quell'immagine, punta a una realtà documentata e tragica; dall'altra chi risponde "no, quel bambino è curato in Italia, quindi voi mentite", spostando completamente il fuoco dal problema alla polemica. È qui che si manifesta una delle contraddizioni più acute della nostra epoca: l'ossessione per il fact-checking che diventa essa stessa strumento di manipolazione, perché quando il debunking serve principalmente a screditare l'avversario piuttosto che a ristabilire la verità, finisce per essere altrettanto strumentale dell'uso improprio dell'immagine che pretende di correggere.
La questione non è tanto se quella specifica foto rappresenti o meno la situazione attuale a Gaza - sappiamo tutti che là si soffre la fame, che i bambini muoiono, che c'è una crisi umanitaria in corso - quanto il fatto che il dibattito pubblico si concentri più sulla battaglia tra narrazioni opposte che sulla sostanza del problema. Chi ha usato quella immagine voleva probabilmente sensibilizzare su una tragedia reale, e anche se l'ha fatto in modo impreciso o strumentale, il messaggio di fondo manteneva una dimensione umanitaria; chi l'ha contestata ha trasformato il tutto in un'operazione di marketing politico, dove il bambino curato in Italia diventa il simbolo della propria superiorità morale e della propria efficacia governativa. È un meccanismo perverso: la sofferenza umana viene prima usata per denunciare, poi per autodifendersi, poi per attaccare, in una spirale che allontana sempre di più dall'oggetto originario del discorso.
Quello che emerge da questa vicenda è che viviamo in un'epoca in cui l'immagine ha perso la sua funzione testimoniale per diventare puro strumento retorico, dove conta più l'effetto comunicativo che la verità rappresentata, e dove il controllo di questa rappresentazione diventa terreno di scontro politico. Non importa più se a Gaza si muore davvero di fame - e si muore - importa chi controlla la narrazione di questa morte, chi può rivendicare il monopolio dell'indignazione o della compassione, chi può trasformare la tragedia altrui in consenso politico per sé. In questo gioco perverso, la verità diventa secondaria rispetto alla battaglia per il possesso simbolico della realtà, e il fact-checking si trasforma da strumento di chiarimento in arma di guerra comunicativa.
La cosa più inquietante è che entrambe le parti, accusandosi reciprocamente di strumentalizzazione, finiscono per strumentalizzare esse stesse, in un circolo vizioso dove l'accusa di cinismo diventa essa stessa cinica, dove la denuncia della manipolazione manipola a sua volta, dove chi critica l'uso politico delle immagini fa politica con la critica. E intanto, mentre si discute di chi ha ragione o torto nell'uso di quella foto, di chi è più sincero nella propria indignazione o più efficace nella propria azione umanitaria, la gente continua a soffrire, i bambini continuano a morire, la realtà continua a esistere al di là delle rappresentazioni che ne diamo e delle battaglie che combattiamo intorno a queste rappresentazioni. Forse dovremmo chiederci se questo modo di fare politica, questa riduzione di tutto a scontro comunicativo, non ci stia facendo perdere di vista proprio quello che dovrebbe essere il nostro primo obiettivo: alleviare la sofferenza umana, ovunque essa si manifesti, senza trasformarla in occasione di consenso o di polemica.
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