DISUMANA COMPRENSIONE
Il caso di Lucia Regna è una di quelle sentenze che lasciano l’amaro in bocca e ti fanno chiedere se la giustizia italiana non sia, a tratti, più simile a un circo che a un tribunale. A Torino, estate 2022: una donna decide di chiudere un matrimonio di vent’anni e di rifarsi una vita. Una scelta legittima, normale. Ma l’ex marito, improvvisatosi martire tradito, reagisce non con parole o silenzi dignitosi, bensì con un pugno: violento, concreto, devastante. Il risultato? Viso ricostruito con ventuno placche di titanio, un nervo oculare irrimediabilmente compromesso, un occhio perso.
Eppure, davanti a questo quadro, il giudice ha ritenuto che bastasse una condanna a un anno e sei mesi per lesioni, con attenuanti generiche e sospensione condizionale. Niente carcere, niente reale deterrenza. La procura aveva chiesto quattro anni e mezzo, ma la toga ha scelto la linea morbida, descrivendo l’episodio come una reazione “umanamente comprensibile” al dolore della fine del matrimonio. Come se la violenza fosse una chiave di lettura del lutto coniugale, una nota a piè di pagina nella dissoluzione della famiglia.
La beffa continua: gli anni di insulti (“puttana”, “non vali nulla”, “sparami”) sono stati reinterpretati come sfoghi legati alla delusione, persino “persuasivi”. Persuasivi di cosa? È il vecchio copione del maschio ferito che rivendica il diritto di colpire la donna che osa andarsene. Intanto, la richiesta di Lucia di 100.000 euro di risarcimento viene letta con sospetto, quasi fosse un pretesto, un “macroscopico interesse economico” piuttosto che il tentativo legittimo di dare un valore a un trauma incancellabile.
Così, la PM, che aveva costruito un impianto solido, è stata di fatto scavalcata da una sentenza che odora di paternalismo antico: quello che, sotto la patina della cautela, invita la donna a “stare zitta e accettare”. E l’avvocata della difesa lo ha detto chiaro: qui non c’è stato un processo, ma una vivisezione della persona offesa, una mortificazione che manda un messaggio inquietante a tutte le altre donne.
Lucia, oggi, fatica persino a parlare con la sua psicologa. Si trova davanti non solo alle cicatrici fisiche e psicologiche, ma anche a una giustizia che l’ha dipinta come sospetta, ambiziosa, quasi colpevole di aver denunciato. È il rovesciamento paradossale: l’uomo che devasta una vita viene compatito per il suo dolore, mentre la donna diventa caricatura di sé, “macchietta interessata”.
E allora la domanda è inevitabile: in che Paese viviamo? Un Paese che si proclama moderno e attento alla violenza di genere, ma che continua a inciampare nei pregiudizi più radicati. Se la “comprensione umana” serve a giustificare pugni e devastazioni, allora è una comprensione tossica, un’umanità che non ha nulla a che fare con la giustizia. Perché un pugno non è una metafora, non è poesia del dolore coniugale: è un crimine. Punto e basta.
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