ECLISSI DI UMANITÀ
Quando l'umano si eclissa, ciò che rimane è l'apparato senza anima: la struttura resta in piedi, ma vuota; l'efficienza sopravvive, ma non ha più direzione; la tecnica avanza, ma perde la dimensione della cura; la maschera resiste, ma il volto scompare. E noi, bravi spettatori di questa metamorfosi, continuiamo ad applaudire ogni innovazione che ci promette di semplificarci la vita mentre ci complica l'esistenza. Siamo diventati clienti della nostra stessa umanità, consumatori di emozioni preconfezionate, utenti di relazioni standardizzate. Tutto diventa funzionale ma sterile: la relazione si riduce a prestazione, il dialogo si appiattisce in protocollo, la parola si consuma come un prodotto usa e getta, il tempo corre senza profondità perché abbiamo paura che rallentare significhi perdere qualcosa, quando invece stiamo perdendo tutto correndo.
Nel mondo della cura, questo scempio raggiunge vette di cinismo raffinate: le terapie si riducono a procedure standardizzate come se tutti i corpi fossero identici e tutti i dolori intercambiabili, il dolore diventa un codice numerico da inserire in una scala da uno a dieci come se la sofferenza fosse una grandezza fisica, la sofferenza si trasforma in caso clinico perché è più facile curare diagnosi che persone. Le cartelle digitali catalogano tutto tranne l'essenziale, gli algoritmi diagnostici predicono tutto fuorché ciò che il paziente ha davvero bisogno di sentirsi dire, le piattaforme telemediche connettono medici e pazienti ma li tengono lontani quanto basta per non doversi guardare davvero negli occhi. Abbiamo trasformato gli ospedali in fabbriche della salute dove il malato è un pezzo da riparare e il medico un tecnico specializzato che consulta più schermi che volti, ma poi ci stupiamo se nessuno guarisce davvero con un protocollo: si guarisce grazie a una presenza che sa restare, che accompagna con sguardo e ascolto, cose che nessun algoritmo sa fare perché richiedono quella cosa antiquata che chiamiamo umanità.
Lo stesso disastro accade nella fede, dove quando l'umano viene meno restano i riti ma non la relazione, la liturgia si fa spettacolo per fedeli-spettatori, la preghiera diventa ripetizione meccanica come un mantra da palestra spirituale, Dio si riduce a un concetto astratto da amministrare secondo regole burocratiche. Le chiese si trasformano in teatri dell'apparenza dove la forma conta più della sostanza e il messaggio si perde nella messaggistica, perché anche il sacro deve essere user-friendly e facilmente digeribile. I preti rischiano di diventare influencer del divino, preoccupati più dei follower che delle anime, mentre in realtà Dio, come l'altro, si incontra solo laddove la vita rimane fragile e umana: nella carne che soffre senza filtri Instagram, nel dubbio che cerca senza trovare risposte preconfezionate, nella compassione che non si lascia spegnere dalle procedure standard.
La società riflette lo stesso vuoto con una precisione che farebbe invidia a un orologio svizzero: la norma sopravvive ma priva di giustizia, come se bastasse rispettare le regole per essere nel giusto; il potere si rafforza ma senza comunità, creando sudditi invece che cittadini; si moltiplicano gli algoritmi di controllo che sanno tutto di noi tranne chi siamo davvero, le intelligenze artificiali che selezionano, valutano e predicono i nostri comportamenti meglio di quanto facciamo noi, mentre le piazze reali si svuotano perché la vita vera si è trasferita online e quelle digitali pullulano di solitudini connesse che condividono tutto ma non comunicano niente. Nelle aziende il lavoro è monitorato da software che tracciano ogni movimento come se fossimo criminali in libertà vigilata, si perde completamente la dimensione del riconoscimento reciproco perché siamo tutti sostituibili ingranaggi nell'ingranaggio; nelle scuole le piattaforme digitali organizzano tutto ma faticano a generare quell'incontro trasformativo che dovrebbe essere l'essenza dell'educazione, trasformando studenti in utenti e insegnanti in erogatori di contenuti; nella vita quotidiana i social creano reti infinite ma smarriscono il senso di comunità autentica, lasciandoci con migliaia di amici virtuali mentre non conosciamo il nome del vicino di casa.
Tutto ciò che è utile resta, ma ciò che è vero si dissolve come zucchero nell'acqua, e noi continuiamo a bere questa brodaglia insapore convincendoci che sia nutriente. La vera crisi non è la mancanza di risposte - ne abbiamo fin troppe, tutte sbagliate - bensì la rimozione dell'umano dalle nostre vite, sostituito da protocolli efficienti e relazioni ottimizzate; il vero pericolo non è la fragilità - che almeno è autentica - ma l'aridità che si spaccia per professionalità, l'indifferenza che si maschera da obiettività, la disumanizzazione che indossa il volto rassicurante del progresso tecnologico promettendoci un futuro migliore mentre ci ruba il presente. Le tecnologie non sono nemiche in sé, ma lo diventano quando occupano lo spazio della relazione anziché custodirlo, quando ci convincono che chattare sia comunicare, che mettere like sia amare, che essere connessi sia essere in relazione.
Eppure per invertire la rotta non serve un miracolo o una rivoluzione: basta una parola pronunciata col cuore invece che con la bocca, un gesto che non fugge dalla complessità umana, uno sguardo che riconosce nell'altro non un problema da risolvere ma un mistero da accogliere, cose così semplici che sembrano impossibili in un mondo che ha fatto della complicazione inutile il suo credo. L'umano non è debolezza da superare con l'ultimo upgrade, ma la sola forza capace di restituire senso, giustizia e comunità a un mondo che rischia di essere iperconnesso eppure desolatamente vuoto come una casa piena di elettrodomestici ma senza abitanti.
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