FIGLI DEL CAOS
Esiste una suggestione profonda nell'idea che la coscienza umana sia nata da un errore di calcolo cosmico, da una dissonanza imprevista nelle armonie divine, eppure proprio questa prospettiva rivela quanto sia difficile concepire la nostra esistenza senza ricorrere a narrazioni che ci collocano al centro di un dramma metafisico di proporzioni universali. La tesi della coscienza come residuo non compensato, come frattura in un disegno altrimenti perfetto, appartiene a una lunga tradizione di pensiero che va dai gnostici ai romantici, passando per certi esistenzialisti, tutti accomunati dalla necessità di spiegare il dolore dell'essere attraverso una qualche forma di caduta originaria. Ma cosa accade se si rovescia questa prospettiva? Cosa succede se invece di vedere nell'imperfezione umana una deviazione dal piano divino, la si considera come la sua più autentica realizzazione? Il paradosso di una Divinità che deve ricorrere a una mente "inferiore" per completare la sua opera potrebbe non essere un limite del divino, ma la sua strategia più raffinata: creare attraverso la rinuncia al controllo totale, generare vita attraverso l'accettazione dell'imprevedibile. In questa lettura, il libero arbitrio non sarebbe un programma secondario emerso per caso, ma il cuore stesso del progetto creativo, l'elemento che trasforma la Creazione da performance solistica del divino in sinfonia corale dove ogni strumento, anche il più stonato, contribuisce all'armonia complessiva.
La metafora dell'uomo come "madre del proprio destino" mentre la Divinità ne è il padre apre scenari interpretativi affascinanti: se il principio paterno rappresenta il logos, la struttura, la legge, quello materno incarnerebbe il caos creativo, la possibilità, la trasformazione continua. L'uomo diventa così il grembo dove le potenzialità divine si fanno realtà concreta, spesso imperfetta, ma proprio per questo capace di evoluzione e sorpresa. Tuttavia, questa visione, per quanto poeticamente potente, rischia di cadere in una forma sottile di antropocentrismo: facciamo davvero così tanta differenza nell'economia cosmica? La nostra coscienza è davvero così anomala o potrebbe essere semplicemente una delle infinite forme che la complessità assume nell'universo? Forse il vero paradosso non sta nell'essere imperfezioni in un sistema perfetto, ma nell'ostinato bisogno di pensarsi come eccezioni, come rotture, come anomalie. Potremmo essere semplicemente una delle modalità attraverso cui l'universo conosce se stesso, né più né meno speciali di una supernova o della formazione di una galassia.
E qui emerge un'altra possibilità interpretativa: che l'imperfezione umana non sia il residuo di un'equazione mal risolta, ma la condizione stessa del pensiero. Forse la coscienza nasce proprio dall'impossibilità di chiudere il cerchio, dalla permanente apertura verso l'ignoto che caratterizza l'esperienza umana. Una mente perfettamente equilibrata, priva di contraddizioni interne, sarebbe anche una mente statica, incapace di quella tensione dinamica che chiamiamo pensiero. Le nevrosi, i dubbi, le contraddizioni non sarebbero allora difetti da correggere, ma i motori stessi dell'umanità. Il Paradiso terrestre fallì non perché l'uomo era imperfetto, ma perché la perfezione stessa è incompatibile con la vita, che è movimento, cambiamento, crescita. Un Eden davvero perfetto sarebbe un museo, bello da contemplare ma incapace di generare storia. La "seconda versione" del Paradiso, quella che include le "espressioni grottesche della natura umana", fallisce a sua volta perché cerca di sistematizzare l'insistematizzabile, di includere in un progetto il principio stesso della progettualità infinita.
Ma forse il punto più provocatorio di questa riflessione sta nell'idea che sia l'uomo a dare senso alla Creazione, rovesciando così la gerarchia tradizionale tra Creatore e creato. Se si accetta questa prospettiva, la Divinità non sarebbe più il sovrano assoluto dell'esistenza, ma qualcosa di più simile a un artista che dipende dalle interpretazioni del suo pubblico per completare l'opera. Ogni atto di coscienza umana diventerebbe un atto co-creativo, ogni scelta una piccola genesi, ogni errore una possibilità di correzione che arricchisce il tutto. In questo scenario, la responsabilità umana assume proporzioni vertiginose: non siamo più sudditi di un piano prestabilito, ma co-autori di una storia ancora tutta da scrivere. Eppure, anche questa visione mantiene qualcosa di profondamente consolatorio: restituisce un ruolo, una funzione, un senso. Forse è proprio questo il punto: che le teologie, per quanto sofisticate, rimangono sempre antropologie sotto mentite spoglie, modi di raccontarsi chi siamo attraverso il racconto di ciò che ci ha generato.
L'idea che l'anomalia possa trasformarsi in motore di evoluzione trova echi interessanti nella scienza contemporanea, dove sappiamo che sono spesso le perturbazioni, i disturbi, le instabilità a generare nuove forme di organizzazione. I sistemi troppo ordinati tendono alla stasi, mentre quelli che mantengono un certo grado di caos interno rimangono capaci di adattamento e crescita. In questa prospettiva, l'imperfezione umana non sarebbe più una tragedia da redimere, ma una risorsa da coltivare. Non si tratterebbe di eliminare le contraddizioni, ma di imparare a danzare con esse, a trasformarle in creatività anziché in sofferenza. Il ponte tra divino e reale potrebbe essere proprio questo: non la risoluzione delle tensioni che attraversano l'esistenza, ma la loro trasformazione in energia vitale, in capacità di immaginare e costruire mondi sempre nuovi. E così, forse, l'eterno dialogo tra Creatore e creato non è destinato a risolversi in una sintesi finale, ma a continuare per sempre, generando a ogni battuta nuove domande, nuove possibilità, nuovi enigmi. Il mistero dell'esistenza non sarebbe qualcosa da svelare una volta per tutte, ma qualcosa da celebrare nella sua inesauribilità, riconoscendo che proprio l'incapacità di risolverlo definitivamente è ciò che mantiene vivi, curiosi, umani.
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