LA CAMPANELLA MUTA
Il primo giorno di scuola non appartiene davvero a tutti. E questo, già da solo, basterebbe a incrinare l’immagine di una comunità educante che ama presentarsi come inclusiva. L’inizio dell’anno scolastico dovrebbe essere un rito collettivo, un simbolo di rinascita e di uguaglianza: il momento in cui bambini e ragazzi, senza distinzioni, varcano insieme la soglia di un percorso che appartiene a ciascuno di loro, in quanto cittadini.
Eppure, per molte famiglie questo giorno si trasforma in un vuoto, in una promessa mancata. Mancano i docenti di sostegno. Non è un dettaglio organizzativo, non è una dimenticanza passeggera né un problema tecnico da risolvere in fretta: è la manifestazione evidente di una società che proclama diritti universali e poi li riduce a variabili burocratiche, subordinate a bilanci, graduatorie e rinvii.
È in questa frattura che si rivela il volto fragile della nostra democrazia, incapace di tradurre in realtà quel principio di uguaglianza che campeggia nei discorsi ufficiali, nei testi costituzionali e nelle aule parlamentari. Perché senza sostegno, la scuola smette di essere scuola: diventa un’istituzione che discrimina, che decide chi può partire e chi deve restare indietro. Il diritto all’istruzione, così, si trasforma da diritto universale a privilegio per pochi.
L’assenza del docente di sostegno non è soltanto una mancanza di personale: è un vuoto di civiltà. È un fallimento politico e culturale che non riguarda solo i bambini con disabilità — i primi a subirne l’esclusione silenziosa — ma che investe l’intero corpo sociale. Ogni classe che non vive l’esperienza della differenza perde un’occasione di crescita. Ogni studente che non incontra la diversità perde un frammento della propria formazione. E ogni volta che questo accade, è la società intera a indebolirsi.
Eppure, la politica sembra ripetere ogni anno lo stesso copione: promesse di riforme, annunci di assunzioni, richiami alla necessità di “modernizzare” la scuola. Raramente, però, si ha il coraggio di affrontare la questione nella sua radice etica: che cosa significa diritto, se può essere sospeso? Che cosa significa uguaglianza, se non è garantita ogni giorno, in ogni aula, per ogni alunno?
Una democrazia che accetta che alcuni inizino l’anno e altri no, che considera normale che certe famiglie debbano inventarsi soluzioni o giustificare assenze, è una democrazia che ha smarrito il senso di comunità. Perché la civiltà non si misura sulla brillantezza delle eccellenze, ma sulla cura dedicata a chi, senza quella cura, resta indietro.
La scuola è il primo luogo in cui la Repubblica prende corpo, il laboratorio concreto in cui i principi di uguaglianza e dignità diventano esperienza viva. Se lì non si è capaci di garantire inclusione, nessuna dichiarazione solenne potrà colmare quel vuoto. Il docente di sostegno non è un lusso da concedere quando ci sono risorse: è il cuore stesso del diritto all’istruzione, la garanzia che la parola “tutti” nella formula “scuola per tutti” non resti una menzogna.
Continuare a inaugurare gli anni scolastici con la mancanza di sostegno significa costruire una società che normalizza la discriminazione. Una comunità che si abitua all’ingiustizia. E allora forse il vero primo giorno di scuola, quello autentico, non sarà quello delle campanelle e delle foto sui social, ma quello in cui ogni bambino potrà finalmente varcare quella soglia con pari dignità. Perché fino a quel momento, la scuola rimarrà incompiuta. E con essa, la Repubblica stessa resterà un progetto tradito.
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