NEW RELIGIONS
Trump e Putin sono due sacerdoti di religioni diverse che però officiano lo stesso rito: la trasformazione del potere in fede. Trump, con il suo carisma da televangelista, ha bisogno di santi immediati, martiri pronti all’uso, figure da canonizzare sotto i riflettori. In questo senso la morte di Charlie Kirk è una fortuna inestimabile per la religione MAGA, perché consegna al movimento non solo un volto giovane e pulito da venerare, ma anche la possibilità di compattare i fedeli attorno a una narrazione semplice e potentissima: la causa è giusta, se i nemici arrivano a uccidere i suoi profeti. Kirk diventa il corpo sacro su cui scolpire la leggenda, un’icona perfetta per un culto che vive di emozioni immediate e di simboli forti. La sua biografia – bianco, cristiano, conservatore, predicatore – si trasforma in vangelo già pronto per essere recitato nelle piazze, nei comizi, nelle dirette televisive. La sua morte è un dono politico, perché i morti non sbagliano, non contraddicono, non evolvono: restano eternamente puri e utili, strumenti docili nelle mani del sommo pontefice Trump. È questa la fortuna più grande, perché permette di alzare il livello della fede: dalle grida nei comizi alle processioni con l’effigie del martire, dal linguaggio politico a quello religioso. Charlie Kirk, trasformato in San Charlie, inaugura la stagione dei martiri MAGA, e ogni religione sa che senza martiri non c’è vera fede, non c’è passione capace di superare la ragione. Così Kirk non è solo un giovane caduto, ma il sigillo divino sulla crociata trumpiana, il sacrificio che rende sacra la lotta, il sangue che certifica la verità del movimento. La sua morte diventa fortuna non nel senso umano, ma nel senso politico-religioso: è il miracolo che mancava, la prova vivente – anzi, morente – che Dio è dalla parte di Trump, e che chiunque osi opporsi non è un avversario politico ma un eretico da perseguitare. Trump non inventa nulla, eredita dal televangelismo americano il copione collaudato di un cristianesimo da palcoscenico, lo innesta nella politica e aggiunge la retorica nazionalista: il risultato è una fede apocalittica che chiama alla guerra santa contro il “deep state”, i progressisti, i demoni interni ed esterni, in una lotta che non promette compromessi ma salvezza totale o dannazione. Putin opera con una logica diversa ma speculare: non gli servono santi individuali perché ha già a disposizione una nazione intera da santificare. La Russia diventa il corpo mistico, la comunità martire e salvatrice allo stesso tempo. I soldati caduti non hanno nome, sono parte di un coro eterno che risuona dal fronte ceceno a quello ucraino, dalla Siria alle steppe siberiane, e ogni goccia di sangue è consacrata sull’altare dell’Impero. Dove Trump grida l’imminente Apocalisse per mobilitare le folle, Putin evoca il ritorno eterno, la restaurazione di un passato mitico in cui lo zar e la Chiesa ortodossa sono inseparabili. Trump promette estasi immediata, Putin offre destino millenario. Il primo si nutre della teatralità del momento, della canonizzazione rapida, della spettacolarità mediatica; il secondo della gravità ieratica, della liturgia senza fine, della continuità storica. Eppure entrambi convergono sul punto essenziale: i cittadini diventano fedeli, la politica diventa liturgia, il leader si erge a profeta. In entrambi i casi la morte è strumento, la fede è arma, la libertà è il prezzo da pagare per entrare in una chiesa senza uscita, dove Trump è il pontefice del miracolo televisivo e Putin il patriarca del sacrificio collettivo, ma entrambi chiedono la stessa cosa: obbedienza assoluta in nome di una salvezza che non appartiene a Dio, bensì al leader.
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