SANTITÀ DI SCOPO
Quando rifletto sulla santificazione di Carlo Acutis mi viene da pensare che in fondo la Chiesa ha sempre fatto così, ha sempre cercato i suoi santi dove servivano di più. Questo ragazzo, con la sua vita apparentemente normale tra computer e social network, è diventato il santo perfetto per l'era digitale non per caso ma per necessità, perché serviva una figura che parlasse la lingua dei giovani d'oggi. E questo mi fa riflettere su quanto la santità sia sempre stata, in realtà, una costruzione tanto spirituale quanto culturale e politica.
Penso a San Francesco [il "mio" Santo, sono nato il 4 ottobre]: quello che conosciamo noi non è esattamente il Francesco storico, ma il Francesco che San Bonaventura ha voluto raccontarci [lascio qui la lectio di Alessandro BARBERO sul Santo], selezionando episodi e miracoli che servissero a costruire un modello coerente con gli ideali francescani e con quello che la Chiesa dell'epoca aveva bisogno di trasmettere. Oppure Maria Goretti, canonizzata così velocemente proprio perché la sua storia di ragazza morta per difendere la castità incarnava perfettamente i valori che si volevano inculcare alle giovani generazioni. Non è cinismo, è semplicemente riconoscere che anche il sacro, per diventare socialmente rilevante, deve passare attraverso la narrazione, la selezione, l'interpretazione.
E poi ci sono i Papi santi, dove la dimensione politica è ancora più evidente: Pio V, Giovanni Paolo II, figure elevate alla santità non solo per i loro meriti spirituali ma per la capacità di consolidare potere, guidare i fedeli, dare forma alla società secondo principi cristiani. La santità diventa qui strumento di legittimazione, educazione, controllo sociale. San Luigi IX promuoveva la giustizia e la fedeltà al trono, Sant'Ignazio creava disciplina attraverso i Gesuiti, San Domenico consolidava il controllo morale delle comunità. Sempre la stessa logica: la santità come funzione, come simbolo che orienta comportamenti e rafforza autorità.
Ma allora cosa significa essere santi? È una qualità che appartiene veramente all'individuo o è piuttosto un riconoscimento che la comunità costruisce intorno a una figura per i propri bisogni? La teologia tradizionale parla di testimonianza divina, ma la storia ci mostra che questa testimonianza è sempre mediata, sempre filtrata attraverso i valori e gli obiettivi della società che la riconosce. I santi medievali educavano e legittimavano il potere feudale, i santi di oggi come Carlo Acutis fanno la stessa cosa ma con hashtag e siti internet. Il mezzo cambia, la funzione resta: trasformare dolore, virtù e devozione umana in narrazione capace di plasmare coscienze e comportamenti.
E poi c'è tutta quella moltitudine di santi dimenticati, con nomi che oggi suonano impossibili e biografie che, se le leggessimo con occhi moderni, ci farebbero rabbrividire. Santi che hanno ucciso in nome della fede, che hanno torturato eretici, che hanno vissuto in modi che oggi considereremmo fanatici, autolesionistici o addirittura violenti. La Chiesa semplicemente non li usa più, non li propone come modelli, li lascia affondare nell'oblio dei calendari polverosi. È una selezione naturale della memoria: sopravvivono solo quelli che funzionano ancora, quelli che possono ancora servire come esempio secondo i canoni morali del momento. San Giorgio che uccide il drago va bene, ma altri santi guerrieri che hanno sterminato intere popolazioni pagane sono discretamente dimenticati. È la prova più evidente che la santità è davvero una costruzione temporale, legata ai bisogni e ai valori di ogni epoca.
Non è che voglia sminuire la fede o la sincerità dell'esperienza spirituale, ma è innegabile che la costruzione del sacro sia sempre stata un'arte di persuasione, antica quanto il cristianesimo stesso. Dalla biografia controllata di Francesco ai santi influencer contemporanei, da Maria Goretti ai Papi politici, emerge sempre lo stesso filo: la santità non nasce mai nel vuoto, è sempre raccontata, costruita, funzionale a esigenze che vanno oltre il puro riconoscimento di virtù personali. Forse la santità autentica sta proprio in questa capacità di incarnare insieme esperienza spirituale genuina e risposta ai bisogni del proprio tempo, senza che l'una escluda necessariamente l'altra.
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